ISOLA DI ORTIGIA

Via Vittorio Veneto

Chiesa di San Filippo Neri
Denominazione e luogo: la chiesa di San Filippo Neri si affaccia sulla Via Vittorio Veneto sull’Isola di Ortigia, Siracusa.
Architetto: il progetto è d’incerta attribuzione tra Giovanni Vermexio e Rosario Gagliardi.
Epoca: 1740-1769
Corrente artistica di riferimento: è una chiesa d’architettura barocca, dalla caratteristica facciata convessa, esempio unico in Siracusa.
Descrizione della pianta
E’ a pianta ottagonale con angoli smussati che crea una forma ellittica, l’abside e l’atrio sono simmetricamente opposti, frontalmente nei minori lati dell’ellisse sono presenti due absidi semicircolari. La copertura è realizzata con volta a padiglione. La pianta ottagonale è certamente del ‘700 ed è attribuita all’architetto Gagliardi, che ne modificò in parte l’aspetto esterno e maggiormente l’interno, con totale modifica dell’impianto planimetrico.
Descrizione dell’esterno
La facciata della chiesa è suddivisa in tre fasce verticali da paraste con capitelli corinzi e divisa in due ordini orizzontali da un cornicione aggettante dall’andamento movimentato.
Il primo ordine è caratterizzato da tre ingressi di diversa ampiezza: il portale maggiore centrale ha gli stipiti affiancati da mensole con figure mostruose mentre mordono le teste delle sirene. Dentro il portale c’è un festone tenuto al centro dalla bocca di un mascherone. A sinistra accanto al mascherone è scolpita una lucertola, simbolo o firma del Vermexio. Il portale maggiore ha un timpano ad arco ribassato, mentre i due minori hanno un timpano triangolare.
Nel secondo ordine di aprono, in corrispondenza delle porte sottostanti, tre grandi finestre con timpano ricurvo, poste sopra una trabeazione vigorosa.
Descrizione dell’interno
L’ambiente unico della navata è diviso in due ordini da un cornicione in corrispondenza dei pilastri. La copertura del vano centrale è in gesso, nel tamburo della volta si aprono finestre che hanno cornici in pietra scura. Gli stipiti delle porte sono decorate con un ramoscello d’ulivo e uno di palma incrociati. L’originalissimo pavimento è formato da lastroni calcarei bianchi e neri (arenaria bianca e pietra asfaltica nera di Ragusa), che raffigurano un intarsio simile a una stella a otto punte e motivi floreali.
Tramite tre gradini sormontati da una balaustra in marmo policromo si accede all’abside, caratterizzata da un arco di trionfo sormontato al centro da uno scudo sostenuto da due putti. Al centro dell’abside è posto l’altare maggiore. Il coro e l’abside sono delimitati da una volta a botte lunetta e da un catino semisferico.
Decorazioni pittoriche e scultoree
Le pareti interne sono ornate da stucchi e sono presenti diversi dipinti.

Inserimento urbanistico e territoriale
Affacciata alla Via Vittorio Veneto, in passato la maggiore arteria di Ortigia, da cui entravano in città processioni e fastosi cortei.
Adiacente alla chiesa vi è l’Oratorio di San Filippo Neri, oggi Liceo Tommaso Gargallo, in cui spiccano il chiostro e lo scalone in marmo. Si trova a fianco l’antico palazzo Interlandi, sede dell’Istituto delle suore Orsoline.
Notizie storiche
Nel 1740 il vescovo Monsignor Testa di Siracusa fece costruire la chiesa su un luogo dove si trovava quella più antica di Sant’Andrea. Fu ultimata nel 1769 e consacrata nel 1770. La fondazione della chiesa e dell’oratorio San Filippo Neri si deve a Margherita De Grandi, che, sollecitata dal nipote sacerdote Francesco De Grandi, donò i suoi averi per la realizzazione.
La costruzione precedente risaliva all’epoca trecentesca, venne poi trasformata in parte durante i secoli XV e XVI a causa di un terremoto, per poi subire un ulteriore rinnovamento a partire dal 1762.

PALAZZO VITALE

Architetto: Andrea Vermexio.
Denominazione: Palazzo Vitale
Luogo: è posto in Via Vittorio Veneto nel quartiere della Mastrarua, sull’Isola Di Ortigia a Siracusa.
Epoca: risale a fine ‘500, inzio anni ‘600, viene portato a termine dopo il terremoto del 1693.
Corrente artistica di riferimento: Barocco.
Descrizione della pianta
Pianta longitudinale, oggi divisa in appartamenti privati.
Descrizione dell’esterno
La facciata del palazzo è disposta in due ordini orizzontali. La parte inferiore del palazzo presenta uno splendido portale centrale arcuato in blocchi di pietra, accanto al quale vi sono due portoncini arcuati semplici. Gli ordini superiori possiedono sei balconcini ad apertura rettangolare con travone liscio sorretti da eleganti mensoloni con decorazioni barocche e mascherone fitoforme al centro.
Descrizione dell’interno
L’interno del palazzo, tuttora in restauro, dovrebbe ospitare degli appartamenti privati o strutture ricettive.
Inserimento urbanistico e territoriale
Il palazzo è inserito nella Via Vittorio Veneto.
Notizie storiche
E’ stato creato per volere della nobile famiglia messinese Vitale nei primi anni del ‘600, ma portato a termine solo dopo il terremoto del 1693, che fermò i lavori per qualche tempo.
Restauri
Oggi l’interno del palazzo è in restauro.

PALAZZO RUSSO

 

Architetto: anonimo.
Denominazione: Palazzo Russo
Luogo: il palazzo è ubicato in Via Vittorio Veneto, sull’Isola Di Ortigia a Siracusa.
Epoca: risale all’epoca settecentesca.
Corrente artistica di riferimento: Barocco.
Descrizione della pianta
Pianta longitudinale, oggi divisa in appartamenti privati.
Descrizione dell’esterno
La facciata, divisa in due ordini orizzontali, presenta un elegante portale arcuato a pilastri a bugnato liscio, sopra il quale è posto un balcone sorretto da mensoloni barocchi, racchiuso da una particolare inferriata bombata in ferro battuto, la cui apertura rettangolare è sormontata da un travone. Accanto al portale vi sono tre aperture arcuate, di cui in quelle di destra è posta una serie di eleganti rosette scolpite in basso rilievo.
Nella parte superiore della facciata vi sono una finestrella semplice di forma rettangolare sormontata da un travone e un balcone a doppia apertura simile a quello sopra il portale. Ai lati due nicchie con statuette.
A completare la facciata ci sono tre finestre a lucernario.
Descrizione dell’interno
All’interno del palazzo ci sono locali adibiti ad uso abitativo con interni d’epoca.
Inserimento urbanistico e territoriale
Il palazzo è inserito nella Via Vittorio Veneto.
Notizie storiche e restauri
E’ stato edificato nel ‘700 per volere della famiglia Russo. Il prospetto è stato più volte manomesso in seguito ad interventi grossolani di restauro effettuati nei primi anni del ‘900, ma conserva ancora pregevoli decorazioni tardobarocche.

DUOMO

 

Architetto: Andrea Palma.
Denominazione: Cattedrale del Duomo voluta dal vescovo Zosimo.
Luogo: collocata nella piazza del Duomo di Siracusa sull’Isola di Ortigia.
Epoca: 1728-1753.
Corrente artistica di riferimento: risale alla corrente artistica del Barocco.
Descrizione della pianta
Una gradinata precede l’entrata. La pianta è longitudinale, divisa in tre navate da due file di colonne, lungo le navate laterali si aprono delle cappelline. Il portico preesistente posteriore venne utilizzato come nartece, mentre all’estremità di ciascuna navata vennero create tre absidi semicircolari.

Descrizione dell’esterno
L’entrata ha un effetto scenografico notevole con le statue sei Santi Pietro e Paolo di Ignazio Marabitti poste ai lati della gradinata.
La facciata si articola in due ordini sovrapposti segnati in orizzontale dalla linea dell’architrave e dal frontone realizzati con andamento spezzato. E’ anche divisa in tre ordini verticali da enormi colonne con capitello corinzio. L’ordine inferiore presenta un portale centrale a tutto sesto sorretto da due colonne, al quale si accostano due colonne binate ai lati che proseguono fino al secondo livello. Questi due ordini di colonne con capitelli corinzi movimentano la superficie liscia retrostante, creando un gioco chiaroscurale di notevole effetto.
Oltre al portale maggiore sono presenti due portali minori con timpani triangolari. Sopra le due porte si apre una finestra centinata.
Nel secondo ordine vi è una nicchia con timpano “centinato” incluso in due colonne, chiuso tra colonne binate e timpano spezzato.
Il campanile costruito contemporaneamente alla facciata presenta due grandi arcate senza ornamenti.
Descrizione dell’interno e delle sue decorazioni
Nel vestibolo vi sono due nicchie, una a sinistra con la statua dì S.Vincenzo Ferreri e l’altra a destra con quella di S. Ludovico Bertrando. L’interno è costituito da tre navate; quella centrale termina nel presbiterio distinto in coro e tribuna. Nella parete in fondo all’abside vi è un quadro ad olio della Natività di Maria. L’altare è costituito da un grosso blocco monolitico, che era parte della trabeazione dell’antico tempio.
Sopra il coro due grandi tele rappresentanti S. Pietro che affida a S. Marziano il compito di cristianizzare la città di Siracusa.
Il soffitto ligneo a trabeazione scoperta è decorato con rosoni dorati e stemmi delle più nobili famiglie siracusane di quel tempo. La volta è decorata con bellissimi affreschi del celebre messinese Agostino Scilla. Nei cinque vani della volta sono rappresentati avvenimenti biblici.
Nella navata destra si può ammirare il Battistero, che contiene un vaso greco di marmo posato su sette leoni di bronzo, adattato a fonte battesimale.
La Cappella del Sacramento è a pianta poligonale e venne progettata da Giovanni Vermexio, qui si trovano un ciborio di Luigi Vanvitelli e gli affreschi di Agostino Scilla.
La cappella di Santa Lucia conserva la statua della santa. Il pavimento di marmo fu eseguito per disposizione del vescovo Requisens, che volle essere sepolto nella cappella, come attesta il sarcofago marmoreo attaccato al muro fra le due arcate e la lapide sul pavimento. Posata sul pavimento nella parte destra della cappella vi è una grossa bomba, che cadde nella stanza del generale Orsini nel 1735 e rimase inesplosa per un miracolo della Santa.
Nella cappella del Crocifisso si trovava un dipinto di Zosimo attribuito ad Antonello da Messina, ora conservato nel Tesoro del Duomo insieme ad altri dipinti. Da quest’ultima cappella si accede alla nuova sagrestia e alla Sala del Tesoro del Duomo, che comprendono dipinti, oreficerie e tessuti preziosi. La chiesa contiene la cassa ed il simulacro argenteo di Santa Lucia oltre alla statua della Madonna della Neve del Gagini.
La decorazione scultorea si compone dell’aquila reale con l’arme dei Borbone di Sicilia con cartiglio, elementi fitomorfi, puttini e statue in pietra calcarea opere di Ignazio Marabitti. Esse rappresentano: in alto a destra Santa Lucia, vergine e martire siracusana; al centro in una nicchia la Madonna alla quale è dedicata la cattedrale; in altro a sinistra San Marciano, protovescovo di Siracusa. Ai lati della scala, San Paolo e San Pietro, che sottolineano la vocazione apostolica della città.
Inserimento urbanistico e territoriale
E’ posta nella piazza del Duomo e, scegliendo come punto di osservazione l’area tra il palazzo del Senato e il Palazzo Beneventano del Bosco, si ammira la facciata del Duomo nella sua pienezza volumetrica, che si estende in profondità grazie alla sua caratterizzazione barocca.
Eventuali adiacenze
Alla sua destra si erge il Palazzo del Senato, oggi Municipio o meglio conosciuto come Palazzo Vermexio.
Notizie storiche
Il Duomo sorge dove esisteva il tempio di Atena sorto nel 480 a.C. Si tratta di un edificio di grande interesse architettonico per il fatto che nella costruzione della Cattedrale vennero inglobate le strutture e le colonne del tempio greco.
Fu il vescovo Zosimo a volere questa cattedrale. Successivamente vennero chiuse le colonne del perimetro, ancora ben visibili, e si tagliarono otto archi nei muri maggiori della cella, ottenendo così una chiesa a tre navate con coronamento absidale.
Dopo l’età araba, in periodo normanno si provvide all’elevazione dei muri della navata centrale, all’apertura di finestre nelle pareti bizantine e all’abbellimento con mosaici della cattedrale e del coro.
Fu iniziata nel 1728 ed il primo ordine fu compiuto nel 1731. Dopo una sosta di venti anni il proseguimento dei lavori si ebbe nel 1751 ed il prospetto fu completato nel 1753.
Nel corso del tempo ha subito ulteriori trasformazioni, tra cui quelle dovute a Andrea Palma, che ricostruì la facciata dopo il terremoto del 1693 in stile barocco e quelle dovute agli Spagnoli, che realizzarono il soffitto e il pavimento.
La costruzione attuale è quindi il risultato di svariati interventi che si sono succeduti nel tempo.

GIBELLINA VECCHIA

Architetto
Alberto Burri
Alberto Burri nacque a Città di Castello nel 1915 ed iniziò la sua carriera di pittore nei primi anni ’40 in un carcere texano, dove l’avevano imprigionato gli americani durante la 2^ guerra mondiale.
Torna in Italia nel 1946, e l’anno successivo tiene la sua prima mostra personale a Roma; nel 1949 utilizza per a prima volta i sacchi per una sua opera e realizza un sacco stampato che chiama SZ1.
All’inzio degli anni ’50 espone per la prima volta alla Biennale di Venezia, presentando l’opera il Grande Sacco, tuttavia diventerà un artista di visibilità internazionale dopo le mostre di Chicago e New York del 1953
Nel 1954 realizza piccole combustioni su carta e continua a utilizzare il fuoco anche negli anni successivi. Nel 1955 espone all’Oakland Art Museum e alla Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma.
Nel 1973 inizia il ciclo dei Cretti e in questa fase si colloca “Il Grande Cretto” realizzato nella città terremotata di Gibellina.
Dopo l’opera di Gibellina crea un cretto di imponenti dimensioni, il ‘Grande Cretto Nero’ esposto nel giardino delle sculture dell’Università di Los Angeles.
Nel 1984, per inaugurare l’attività dell’ Accademia delle Belle Arti di Brera nel settore del contemporaneo, viene ospitata una mostra di Burri.
Le opere del Maestro sono esposte principalmente in due musei a Città di Castello.
Burri muore a Nizza nel 1995, un mese prima del suo ottantesimo compleanno.

Denominazione – Luogo – Descrizione
“Il Grande Cretto”
Il centro storico di Gibellina fu distrutto dal sisma che colpì la Valle del Belice il 15 gennaio 1968, un terremoto che distrusse 6 paesi e provocò più di 1 000 vittime e quasi 100 000 senza tetto. La città venne ricostruita a 20 km dal precedente sito, nel comune di Salemi, il vecchio centro che venne abbandonato è oggi noto come Gibellina Vecchia; proprio su questo territorio sorge “Il Grande Cretto”, opera di Alberto Burri.

Durante la ricostruzione della cittadina l’ex sindaco Ludovico Corrao volle chiamare a Gibellina diversi artisti di fama mondiale per inserire opere contemporanee nella città nuova, tra questi era stato chiamato ad operare anche Burri che tuttavia si rifiutò di realizzare un’ installazione da inserire nella città nuova e chiese di visitare Gibellina Vecchia, ancora ridotta ad un cumulo di macerie.
Burri rimase molto colpito da ciò che vide e si fermò per vari giorni sulle rovine a pensare; mise tutta la sua genialità artistica nella progettazione di un’ opera che attuasse il desiderio -espresso dal sindaco- di conservazione della memoria del luogo.

Il progetto fu avviato nel 1948 e venne terminato in 5 anni, nel 1989.

Burri decise di conservare -letteralmente- la città; con l’aiuto dell’esercito vennero raccolte e compattare le macerie che furono legate insieme grazie a delle reti metalliche. I 12 ettari di rovine vennero ricoperte con un’enorme colata di cemento bianco e vennero creati 122 blocchi alti circa 1,50 m distanziati l’uno dall’altro da fenditure larghe 2 o 3 metri. Il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca in buona parte l’impianto urbanistico, con gli isolati e le strade percorribili prima del terremoto; la superficie del cretto prevista nel progetto era di dimensioni superiori rispetto a quella realizzata ad oggi, tuttavia resta un’opera colossale che misura attualmente 315 m per 280 m.
Nel 2011 erano stati organizzati degli incontri per la sollecitazione dei lavori di completamento dell’opera, a novembre 2013 è stato deciso -in via definitiva- il restauro e completamento del Cretto, ma la data dell’intervento non è ancora nota.

Quest’ opera è un gigantesco monumento alla distruzione, con la quale Burri riesce a ‘congelare’ l’evento nella memoria storica di questo paese; dall’alto il terreno pare solcato da profonde fratture nel cemento a ricordare gli effetti disastrosi del sisma. L’impatto visivo dall’esterno e dall’interno del Cretto è molto diverso, dall’esterno è un gigantesco monumento di arte ambientale, leggibile anche a chilometri di distanza, mentre dall’interno l’opera è uno spazio percorribile, quasi un labirinto, nel quale ognuno può vivere un’ esperienza soggettiva di riflessione e smarrimento.

Corrente artistica di riferimento
Land Art
“Il Grande Cretto” è l’opera di Land Art più grande in Italia ed è una delle più importanti ed estese al mondo.
La Land Art nasce nel 1967 – 68 negli Stati Uniti d’America e con questo termine si descrivono gli interventi di carattere artistico effettuati dall’autore direttamente sulla natura (si prediligono grandi spazi isolati o piccole installazione nei boschi).
Questo nuovo tipo di arte si sviluppò per contrastare le correnti della pop-art e della minimal-art, gli artisti volevano opporsi all’urbanizzazione sempre più incalzante richiamando temi ecologici e ambientali; con l’abbandono degli attrezzi tradizionali, i Land-Artists, cercavano una complicità con il luogo dove avrebbero operato in contatto diretto con la natura. I progetti realizzati sono prevalentemente scultorei e si tratta di interventi su grande scala, i materiali utilizzati sono spesso quelli che l’ambiente stesso offre o comunque non vanno a creare un disaccordo visivo con il luogo scelto.

Dal 2008 questo capolavoro di Alberto Burri è sottoposto alla tutela dei beni culturali e del paesaggio.

Eventi
• Ogni anno in questa località si tengono le Orestiadi, una serie di manifestazioni teatrali rese molto suggestive dalla location.

•Vi si svolgono svariate competizioni di orienteering (corsa di orientamento) anche a livello internazionale.

• Nel 2011 al BIT (fiera del turismo) a Milano è stato registrato l’interessamento di un’agenzia di Wedding Planner per la location molto suggestiva.

• Durante la settimana della cultura, nel 2011, venne organizzato un “Viaggio della Memoria” nei luoghi più significativi del sisma.

• Il Cretto di Burri venne candidato per il Premio del Paesaggio del Consiglio dell’Unione Europea, concorso indetto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC). L’opera si classificò al 3° posto per il buon esempio nella salvaguardia, gestione e pianificazione dei paesaggi.

• Sono in corso progetti per la valorizzazione della città per l’EXPO 2015.

*Cretto: crepa, fenditura, spaccatura

GIBELLINA NUOVA – Il Grande Cretto

Alberto Burri

Alberto Burri nacque a Città di Castello nel 1915 ed iniziò la sua carriera di pittore nei primi anni ’40 in un carcere texano, dove l’avevano imprigionato gli americani durante la 2^ guerra mondiale.

Torna in Italia nel 1946, e l’anno successivo tiene la sua prima mostra personale a Roma; nel 1949 utilizza per a prima volta i sacchi per una sua opera e realizza un sacco stampato che chiama SZ1.

All’inzio degli anni ’50 espone per la prima volta alla Biennale di Venezia, presentando l’opera il Grande Sacco, tuttavia diventerà un artista di visibilità internazionale dopo le mostre di Chicago e New York del 1953

Nel 1954 realizza piccole combustioni su carta e continua a utilizzare il fuoco anche negli anni successivi. Nel 1955 espone all’Oakland Art Museum e alla Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma.

Nel 1973 inizia il ciclo dei Cretti e in questa fase si colloca “Il Grande Cretto” realizzato nella città terremotata di Gibellina.

Dopo l’opera di Gibellina crea un cretto di imponenti dimensioni, il ‘Grande Cretto Nero’ esposto nel giardino delle sculture dell’Università di Los Angeles.

Nel 1984, per inaugurare l’attività dell’ Accademia delle Belle Arti di Brera nel settore del contemporaneo, viene ospitata una mostra di Burri.

Le opere del Maestro sono esposte principalmente in due musei a Città di Castello.

Burri muore a Nizza nel 1995, un mese prima del suo ottantesimo compleanno.

 

Il Grande Cretto”

Il centro storico di Gibellina fu distrutto dal sisma che colpì la Valle del Belice il 15 gennaio 1968, un terremoto che distrusse 6 paesi e provocò più di 1000 vittime e quasi 100000 senza tetto. La città venne ricostruita a 20 km dal precedente sito, nel comune di Salemi, il vecchio centro che venne abbandonato è oggi noto come Gibellina Vecchia; proprio su questo territorio sorge “Il Grande Cretto”, opera di Alberto Burri.

Durante la ricostruzione della cittadina l’ex sindaco Ludovico Corrao volle chiamare a Gibellina diversi artisti di fama mondiale per inserire opere contemporanee nella città nuova, tra questi era stato chiamato ad operare anche Burri che tuttavia si rifiutò di realizzare un’ installazione da inserire nella città nuova e chiese di visitare Gibellina Vecchia, ancora ridotta ad un cumulo di macerie.

Burri rimase molto colpito da ciò che vide e si fermò per vari giorni sulle rovine a pensare; mise tutta la sua genialità artistica nella progettazione di un’ opera che attuasse il desiderio -espresso dal sindaco- di conservazione della memoria del luogo.

Il progetto fu avviato nel 1948 e venne terminato in 5 anni, nel 1989.

Burri decise di conservare -letteralmente- la città; con l’aiuto dell’esercito vennero raccolte e compattare le macerie che furono legate insieme grazie a delle reti metalliche. I 12 ettari di rovine vennero ricoperte con un’enorme colata di cemento bianco e vennero creati 122 blocchi alti circa 1,50 m distanziati l’uno dall’altro da fenditure larghe 2 o 3 metri. Il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca in buona parte l’impianto urbanistico, con gli isolati e le strade percorribili prima del terremoto; la superficie del cretto prevista nel progetto era di dimensioni superiori rispetto a quella realizzata ad oggi, tuttavia resta un’opera colossale che misura attualmente 315 m per 280 m.

Nel 2011 erano stati organizzati degli incontri per la sollecitazione dei lavori di completamento dell’opera, a novembre 2013 è stato deciso -in via definitiva- il restauro e completamento del Cretto, ma la data dell’intervento non è ancora nota.

Quest’ opera è un gigantesco monumento alla distruzione, con la quale Burri riesce a ‘congelare’ l’evento nella memoria storica di questo paese; dall’alto il terreno pare solcato da profonde fratture nel cemento a ricordare gli effetti disastrosi del sisma. L’impatto visivo dall’esterno e dall’interno del Cretto è molto diverso, dall’esterno è un gigantesco monumento di arte ambientale, leggibile anche a chilometri di distanza, mentre dall’interno l’opera è uno spazio percorribile, quasi un labirinto, nel quale ognuno può vivere un’ esperienza soggettiva di riflessione e smarrimento.

Land Art

Il Grande Cretto” è l’opera di Land Art più grande in Italia ed è una delle più importanti ed estese al mondo.

La Land Art nasce nel 1967 – 68 negli Stati Uniti d’America e con questo termine si descrivono gli interventi di carattere artistico effettuati dall’autore direttamente sulla natura (si prediligono grandi spazi isolati o piccole installazione nei boschi).

Questo nuovo tipo di arte si sviluppò per contrastare le correnti della pop-art e della minimal-art, gli artisti volevano opporsi all’urbanizzazione sempre più incalzante richiamando temi ecologici e ambientali; con l’abbandono degli attrezzi tradizionali, i Land-Artists, cercavano una complicità con il luogo dove avrebbero operato in contatto diretto con la natura. I progetti realizzati sono prevalentemente scultorei e si tratta di interventi su grande scala, i materiali utilizzati sono spesso quelli che l’ambiente stesso offre o comunque non vanno a creare un disaccordo visivo con il luogo scelto.

 Dal 2008 questo capolavoro di Alberto Burri è sottoposto alla tutela dei beni culturali e del paesaggio.

 Eventi

Ogni anno in questa località si tengono le Orestiadi, una serie di manifestazioni teatrali rese molto suggestive dalla location.

 •Vi si svolgono svariate competizioni di orienteering (corsa di orientamento) anche a livello internazionale.

 • Nel 2011 al BIT (fiera del turismo) a Milano è stato registrato l’interessamento di un’agenzia di Wedding Planner per la location molto suggestiva.

 • Durante la settimana della cultura, nel 2011, venne organizzato un “Viaggio della Memoria” nei luoghi più significativi del sisma.

 • Il Cretto di Burri venne candidato per il Premio del Paesaggio del Consiglio dell’Unione Europea, concorso indetto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC). L’opera si classificò al 3° posto per il buon esempio nella salvaguardia, gestione e pianificazione dei paesaggi.

 • Sono in corso progetti per la valorizzazione della città per l’EXPO 2015.

NOTO

CATTEDRALE DI NOTO

ImageDenominazione: Cattedrale di Noto o di San Nicolò

Luogo: Noto

Epoca: 1694-1703

Corrente artistica di riferimento: Barocco siciliano, Neoclassicismo.

Pianta: pianta a croce latina con tre navate, delle quali quella centrale è più grande delle due laterali.

Esterno: la facciata risponde alla tipologia con le due torri laterali e presenta evidenti analogie con Versailles e con altre composizioni francesi del 700. Essa è frutto di un corposo rimaneggiamento attuato da Vincenzo Sinatra nella seconda metà del ‘700 nella preesistente facciata incompiuta di Rosario Gagliardi. La facciata in pietra calcarea tenera ha una forte ispirazione neoclassica. Nella sopraelevazione delle due torri campanarie le paraste non sono ripetute come alla base e i timpani sono arricciati. Le porte principali sono d’ispirazione cinquecentesca, quella centrale è in bronzo e rappresenta episodi della vita di san Corrado Confalonieri da Piacenza, opera dello scultore siciliano Giuseppe Pirrone (1982).

Il finestrone centrale con timpano curvilineo è ripreso invece dal repertorio di Andrea Pozzo.

È coronata da quattro statue tardo settecentesche, eseguite nel 1796 dallo scultore Giuseppe Orlando, che raffigurano gli evangelisti.

Interno e decorazioni: l’interno, a tre navate, custodisce numerose opere d’arte, alcune delle quali provenienti dalla Noto antica, fra le quali l’urna argentea contenente le spoglie mortali di San Corrado Confalonieri. Il disastroso crollo del 1996, tuttavia, ha causato la perdita dell’intero apparato iconografico, il cui rifacimento è tuttora in corso.

Nella volta della navata centrale, dove prima del crollo campeggiava la tempera raffigurante la “Gloria di San Corrado” dell’Arduino, sarà posta tra settembre e dicembre 2013 una tela polilobata raffigurante l'”Assunzione della Madonna e Santi” (delle dimensioni di 90 metri quadri), opera del maestro Lino Frongia. Nei pennacchi sono raffigurati i quattro evangelisti, mentre sulla superficie della cupola è raffigurata la Pentecoste del russo Oleg Supereco (2011). Nell’area del presbiterio sono posti l’altare, l’ambone e la croce in bronzo argentato realizzati da Ducrot. Nel catino absidale è stato realizzato dal marchigiano Bruno d’Arcevia l’affresco del Cristo Pantocratore. Nei riquadri sottostanti, quasi come a partecipare della Gloria del Pantocratore, l’artista marchigiano ha dipinto i dottori della chiesa, con al centro Sant’ Agostino e Sant’ Ambrogio (2013). Lo stesso Bruno D’Arcevia ha ricevuto l’incarico di affrescare “L’attesa del Giudizio Universale” nella volta del presbiterio.

Sono diciassette in tutto le nuove vetrate di Mori.

Entro luglio 2013 vengono terminate le dodici sculture in gesso bianco, nelle nicchie delle navate laterali, alle quali si aggiungono i due Santi Patroni d’Italia, che sono collocati ai lati dell’ingresso principale.

Nel contempo vengono collocate sulle pareti delle navate laterali le tele raffiguranti le stazioni della Via Crucis di Roberto Ferri.

Inserimento urbanistico e territoriale: si trova sulla sommità di un’ampia scalinata, sul lato nord del Municipio.

Adiacenze: Municipio (lato nord)

Notizie storiche: nel secolo scorso, intorno agli anni cinquanta, furono apportati vari rifacimenti e modifiche nell’apparato decorativo, non sempre ben riusciti, come il trompe-l’oeil delle strutture verticali e la decorazione a tempera delle volte, le radicali modifiche dell’altare maggiore e dell’antico organo e inoltre la sostituzione dell’originaria copertura a falde della navata centrale con un pesante solaio latero-cementizio, che probabilmente fu una delle cause principali del crollo del 1996.

Restauri: nel corso dei secoli, tuttavia, sia la facciata sia l’interno hanno subito numerosi rimaneggiamenti con l’erezione della nuova cupola, opera del netino Cassone.

In seguito al terremoto del 13 dicembre 1990 la chiesa subì alcuni danni strutturali e già allora si pensò di chiuderla al culto e di sottoporla a restauri. Tuttavia non si fece in tempo a prendere tali provvedimenti. La sera del 13 marzo del 1996, a causa di un grave difetto costruttivo dei pilastri della navata centrale, il primo dei piloni di destra che fa da sostegno alla cupola “per schiacciamento” rovinò al suolo, trascinando con sé nel crollo la cupola stessa e per effetto domino l’intera navata destra, la navata centrale e il transetto destro, lasciando miracolosamente in piedi solo una piccola parte del tamburo. Fortunatamente non vi furono vittime, poiché a quell’ora la chiesa non era aperta al pubblico.

Nel gennaio del 2000 hanno avuto inizio i lavori di ricostruzione e di restauro, eseguiti da maestranze locali. Inizialmente sono stati riedificati con conci squadrati in pietra i pilastri di destra, che conservano la forma e le fattezze di quelli originari, ma senza il difetto costruttivo che aveva causato il crollo della basilica. Quindi si è passati alla demolizione e alla successiva ricostruzione dei pilastri della navata sinistra, che riportavano le stesse gravi imperfezioni di quelli crollati. Successivamente sono ritornate all’antico splendore la navata centrale e la navata destra. Ultimo capitolo della ricostruzione della cattedrale è stato l’elevazione della nuova cupola, pressoché identica all’originale. La nuova struttura di copertura della chiesa non è di tipo latero-cementizio (come il solaio crollato risalente agli anni cinquanta), ma è stata ricostruita com’era originariamente con capriate in legno e manto in coppi siciliani, mentre le volte sono realizzate con il tradizionale incannucciato e gesso. Una volta completati i lavori di ricostruzione, sono stati ripristinati gli apparati decorativi in stucco, come capitelli, trabeazione e cornici.

La ricostruzione è stata dunque eseguita con gli stessi materiali e con le tecniche del Settecento. Sono state utilizzate pietre locali assemblate però con moderni metodi antisismici. Proprio per migliorare la resistenza ai forti terremoti si è fatto ricorso infatti a materiali come la fibra di carbonio.

A conclusione di questo lungo e complesso lavoro di ricostruzione e di restauro dell’esistente il 18 giugno 2007 la chiesa è stata riaperta al culto.

Una nuova commissione di consulta per l’eccellenza estetica, istituita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e nominata dal Dipartimento nazionale di protezione civile, ha dato incarico ad artisti contemporanei di fama nazionale ed internazionale per la esecuzione delle nuove opere d’arte all’interno della chiesa.

 

 

 

 

VILLA DEL CASALE – PIAZZA ARMERINA

Storia della Villa

Nel sec. XVII d.C. alcuni contadini, impegnati nel lavoro dei campi dell’alta valle del fiume Gela, ai piedi del monte Mangone, si accorsero che affioravano numerose strutture murarie rivelatesi poi appartenenti alla grandiosa villa imperiale del Casale.

Da quel momento tutta la zona sottostante al monte Mangone fu interessata da campagne scavo non autorizzate dagli organi competenti e molti furono coloro che fecero ritrovamenti di oggetti preziosi. Si ricorda un certo Sabatino del Muto, che nel 1812 operando nella zona della basilica trovò monili d’oro e d’argento, che si dispersero in collezioni private, e una colonna marmorea che vendette alla cattedrale. Da questa frenetica ed illegale attività, mirata solamente al ritrovamento di oggetti preziosi, alcuni pavimenti mosaicati subirono danni.
Ciò nonostante il grosso dei mosaici pavimentali si conservò intatto nella sua composizione e magnificenza fino al punto da stupire gli archeologi che si susseguirono nello scavo della villa.
Ben 3500 mq. di pavimenti mosaicati a disegni geometrici e figurati, realizzati da maestranze africane, furono ritrovati insieme a statue marmoree a grandezza naturale, a torsi marmorei, a capitelli in stile ionico e corinzio, a monete d’oro, d’argento e di bronzo, a colonne e trabeazioni, a teste di statue e tanti altri frammenti marmorei: piedi di statue calzati da sandali, gambe e mani marmoree, che oggi dovrebbero trovarsi nei magazzini del costituente museo archeologico nel Palazzo Trigona in Piazza Duomo.
I mosaici pavimentali portati alla luce raffigurano paesaggi esotici, ville porticate, episodi di caccia e trasporto di animali reali e fantastici, scene mitologiche e marine, ludi circensi, amorini vendemmianti, nereidi, che documentano usi, costumi, cultura, filosofia e vita quotidiana della società aristocratica dominante in quel secolo. Nello stesso tempo costituiscono una sorta di catalogo della fauna (marina e terrestre) conosciuta in quel periodo. Figure di leoni, pantere, elefanti, dromedari, asini, leopardi, tigri, antilopi, cinghiali, lepri, volatili, lucertole e struzzi si alternano a figure di pesci spada, triglie, polipi, murene, ricci, cernie, calamari, seppie, aragoste, meduse e delfini, la cui policromia li rende talmente vicini al reale che anche i non addetti ai lavori possono distinguerli con estrema facilità.
Le differenze stilistiche fra i mosaici dei diversi nuclei sono molto evidenti. Questo, tuttavia, non indica necessariamente un’esecuzione in tempi diversi, ma probabilmente maestranze differenti.
Subito dopo lo scavo iniziò il restauro di tutti i pavimenti e delle strutture murarie, le cui pareti interne ed esterne presentavano e presentano affreschi dai colori che spaziano dal rosso pompeiano al giallo, all’azzurro, al nero, che ben si adattano ai colori dei mosaici pavimentali dei vari ambienti ed inquadrabili nel terzo stile
pompeiano.
Nell’ottobre del 1991, a causa di una valanga di detriti proveniente dal Monte Mangone, tutto il complesso monumentale, sotto la violenza delle acque fangose, rischiò di scomparire per sempre e molti furono i danni subiti.

La Villa del Casale
La Villa Romana del Casale sorge a circa 5 km da Piazza Armerina, in contrada Casale, paesaggio ricco di vegetazione, vicino al fiume Gela.
La posizione del luogo, protetto dai venti, non sfuggì agli occhi del proprietario, che
qui fece costruire una delle più belle ville che i romani abbiano mai edificato, conosciuta in tutto il mondo col nome di “Villa Imperiale del Casale di Piazza Armerina”, nel 1997 è stata riconosciuta dall’UNESCO e inserita nel “patrimonio dell’Umanità”.
La Villa, edificata nel III- IV secolo d.C., presenta 60 stanze e 3500 mq di mosaici pavimentali, che costituiscono un complesso monumentale di inestimabile valore.
La scelta della zona è legata al fatto che è collocata vicino a tre fortezze che assicuravano protezione a tutta la zona sottostante.
La villa imperiale, costruita sui resti di un edificio rustico del II sec. d.C., era circondata dalla campagna ricca di selvaggina e di folti boschi. Luogo che permetteva lunghe battute di caccia, era inoltre sede dove dedicarsi all’otium intellettuale e filosofico, tanto amato dai romani aristocratici e ricchi.
Possedere una villa significava appartenere alla categoria dei ricchi, di coloro che spendevano vere fortune alla ricerca dei piaceri della carne, dello spirito, della villeggiatura e della tavola. Il luogo adatto alla loro realizzazione era la villa al mare, al lago o in campagna, generalmente vicino ad un corso d’acqua. Nel periodo imperiale queste lussuose dimore furono sempre più arricchite di tutte le agevolazioni necessarie alla realizzazione di tali piaceri: vi si costruirono terme, giardini, palestre e triclini a seconda della disponibilità economica del proprietario.
La “Villa Imperiale del Casale” era munita di tutti queste comodità ed il suo orientamento solare fa sì che una parte di essa sia esposta al sole, mentre l’altra rimanga all’ombr,a dando modo al proprietario di poter scegliere o il calore del sole o il fresco dell’ombra.
Il complesso monumentale è formato da quattro raggruppamenti di edifici.
Il primo raggruppamento comprende: le Terme, la Grande Latrina, l’Atrio Poligonale e l’Ingresso a Tre Fornici.
Il secondo: il Grande Peristilio, le stanze degli Ospiti, la Sala delle Ragazze in Bikini e la Diaeta di Orfeo. Il terzo: gli Appartamenti privati del proprietario, la Basilica e l’Ambulacro della Grande Caccia.
Il quarto comprende: la Sala Tricora e lo Xystus.

Il Proprietario
L’identificazione del proprietario è stata a lungo discussa e molte diverse ipotesi sono state formulate.
Quella del Casale diventa una delle tante ville costruite da grossi latifondisti ritiratisi in campagna ad amministrare i propri fondi.

Il Mosaico
La parola “mosaico” deriva dal greco e significa “opera paziente, degna delle Muse”.
Senza dubbio rappresenta una delle più alte espressioni dell’arte e uno dei più antichi e appariscenti mezzi d’ornamentazione, tramandateci fin dall’epoca romana.
Quella del mosaico è una tecnica decorativa che consiste nella creazione di motivi
puramente geometrici, o complesse composizioni figurative con l’accostamento di
piccoli frammenti colorati ed opportunamente preparati.
Questo caratteristico tipo di decorazione viene impiegato prevalentemente su ampie e lisce superfici, quali pareti, pavimenti, soffitti e volte. Talvolta la tecnica del
mosaico viene adattata anche ad oggetti di minute dimensioni.
I frammenti possono essere di svariato materiale come il marmo, il vetro, la pietra e
qualsiasi altra materia dura che si possa ridurre in piccole tessere. Viene impiegato
anche il materiale di scarto, come piastrelle, mattoni vecchi etc.

Sala delle unzioni
Il mosaico è posto sul pavimento e vi sono raffigurate delle figure intente a ungersi. La figura al centro è servita da due servi che tengono in mano strigile e ampolla dell’olio. Altri due schiavi (Tite e Cassi) reggono un secchio e una scopa. Il mosaico presenta restauri più tardi rispetto alla sua composizione.

Frigidarium
Nelle lunette pavimentali delle nicchie è raffigurata la famiglia al completo con la servitù. Troviamo la figura di una donna intenta a spogliarsi aiutata da due ancelle, è la figlia dell’imperatore Massimiano: Fausta.
Nella seconda nicchia troviamo tre uomini. Massenzio, il figlio dell’ imperatore, è quello al centro seduto su uno sgabello di leopardo, avvolto in un accappatoio di lino e servito da due servi che gli porgono le vesti. La figura di Massenzio è strabica, poiché era davvero affetto da strabismo.
Sul pavimento del frigidarium vi è una scena marinara. Vi son quattro barche accerchiate da figure mitologiche condotte da amorini pescatori.
La cupola del frigidarium era mosaicata con tessere di pasta vitrea.

Edicola di Venere
Decorata da motivi geometrici.

Vestibolo
Pavimento con motivi esagonali e ottagonali.

Cortile poligonale
Mosaici con motivi a squame. Il pavimento dell’atrio è in balatino.

Ingresso villa
I Ninfei erano rivestiti da tessere bianche. Sul prospetto esterno del pilone si trova un affresco mal conservato che raffigurava il signum con raffigurate le quattro teste auree dei tetrarchi.

Sala del vestibolo dell’adventus
Mosaico con emblema dell’adventus (=arrivo), dentro una cornice bianca rossa e nera abbiamo due registri dove son raffigurate persone che accolgono l’imperatore. Registro 1: tre giovani con capo coronato da ramoscelli tengono un dittico da legger all’imperatore. Registro 2: due giovani con ramoscelli d’alloro e un uomo con barba che regge il cerularium bronzeo con la candela accesa. Tutti i personaggi son rivolti a destra, dove stava la figura dell’imperatore.

Larario
Nel pavimento è raffigurato un mosaico con un ottagono formato dalla sovrapposizione di due quadrati, il tutto contiene trecce multicolori. Nell’ottagono è raffigurata poi una corona di alloro in un nastro porpora racchiudente una foglia di edera.

Peristilio
Nel pavimento del quadriportico son mosaicate due differenti corone di alloro contenenti protomi di animali domestici e selvatici dentro a riquadri sui cui angoli sono posti uccelli e foglie di edera.

Piccola latrina
Sul pavimento vi erano mosaici con raffigurazioni animali: gattopardo, onagro, lepre, pernice e ottarda.

Palestra
Pavimento decorato con competizioni del Circo Massimo di Roma in onore di Cerere. Gara di quadrighe.
Nell’abside di destra son raffigurati tre templi dedicati a Giove, Roma ed Ercole e sotto di questi la vestizione dell’auriga, che riceve da due servi elmo e frusta. Più in basso vi erano le 12 porte dei carceres con divinità da cui partivano i concorrenti e il tribunale, dove risiedeva il giudice che dava il via alla gara.
A sinistra vi è raffigurato, ai lati di un arco eretto in onore di Tito, un palco con spettatori, dove vi è un giovane che distribuisce pani. Sotto il palco vi è un tempio eretto per il dio Conso.
Nell’arena due carri si scontrano. Un’ovaria posta sulla spina indica che si è a metà percorso, mentre l’altra posta a terra indica che nessun giro e stato ancora compiuto. Tutta l’arena è invasa da giovani che vuotano acqua sulle ruote delle quadrighe. A ovest dell’arena è inscenata la premiazione da parte di un magistrato togato al vincitore.

Vestibolo trapezioidale
Il pavimento presenta la scena della domina o signora della villa: Eutropia.
Ella è la moglie di Massimiano ed accompagna i figli Fausta e Massenzio. Massenzio è sempre presentato strabico. I personaggi imperiali son rappresentati con le mani coperte da un velo trasparente, che non è disegnato e rappresentato, si capisce la presenza del panno dalle dita dei personaggi che lo stanno tenendo. Alle estremità della scena vi son due ancelle. Quella di sinistra tiene una cesta con delle vesti ripiegate, mentre quella di destra regge una cordicella che è appesa a una cassetta contenente oli da usare nella sala delle unzioni e una tracolla contenente il necessario per i bagni. A destra della scena vi sono una cathedra e un enorme vaso bronzeo.

Sala del forno
Pavimento mosaicato con esagoni riempiti da croci o ottagoni. Il pavimento vicino all’ingresso presenta un taglio, su cui si poggiava il piano di lavoro per la cottura di vasellame.

Sala intermedia
Mosaicata con disegni geometrici esagonali, quadrati o a stelle con all’interno cerchi, rose e stelle.

Cucina
Sul lato nord della stanza si ha una vasca ricoperta da tessere bianche di grandi dimensioni.
Sul pavimento della stanza continuano i motivi geometrici

Sala della danza
Era una camera da letto per gli ospiti, prende il nome dal mosaico che presenta su due registri scene di danza.
Nel primo registro vi son giovani che alzano da terra delle ragazze.
Nel secondo vi è una ragazza vestita con un abito che si stringe sotto il seno e che mentre danza muove un drappo rosso e un giovane vestito di una corta tunica. La scena potrebbe rifarsi al Ratto delle Sabine.
Gli affreschi sulle pareti sono oggi distrutti.

Sala con disegni a stelle
Mosaico decorato da quadrati che si intersecano e formano stelle a otto punte e all’interno hanno ottagoni contenenti rosoni o intrecci di nastri multicolori.

Sala delle quattro stagioni
Di pianta rettangolare, ha funzione di vestibolo alla sala interna. Vi si accede dal peristilio. Nel pavimento troviamo raffigurati, all’interno di quattro medaglioni, mezzibusti rappresentanti, nell’ordine, le STAGIONI:
PRIMAVERA rappresentata come una giovane con le rose in testa;
ESTATE rappresentata come un giovane con le spighe in testa;
AUTUNNO ci è presentato come una giovinetta col capo reclinato;
INVERNO visto come un giovane con foglie in testa ed un manto sulla spalla; accanto a questo medaglione ne troviamo altri raffiguranti volatili e pesci, che stanno a simboleggiare i segni zodiacali delle stagioni.

Sala degli eroti pescatori
Sala quadrangolare con funzioni triclinari (ovvero di sala da pranzo) per gli ospiti. Affreschi raffiguranti rettangoli sono figurati sulle pareti.
Sul pavimento troviamo una scena marinara: degli eroti su quattro barche stan pescando, ci presentan dei metodi di pesca (rete, lenza, fiocina e nassa).
In fondo alla scena vediamo una villa formata da due ali laterali con un portico colonnato.

Sala della piccola caccia
Sala rettangolare con funzione di soggiorno. Accesso nel portico nord del peristilio. L’ingresso è colonnato e si presume, data l’assenza dei fori per gli stipiti della porta, che la sala fosse chiusa da una tenda.
Nel pavimento convergente verso il portico del peristilio è rappresentata una battuta di caccia disposta su 5 registri:
– due servi accompagnano i cani sul luogo di caccia;
– prima di iniziar la caccia un personaggio fa un “sacrificio incruento” a Diana (dea della caccia) bruciando incenso; Diana è con arco e faretra e alla scena presenzia Massenzio (strabico e con a tunica ornata da clavi e foglie di edera);
– due falconieri scrutano il fogliame di un alloro, su cui si trovano due tordi;
– un cane azzanna una lepre, a destra un cavaliere infilza una lepre;
– cattura dei cervi che vengon spinti verso una rete da dei cavalieri; un cinghiale, a destra, si avventa su un giovane a terra e al centro di tutta la scena i venatores o cacciatori, sotto una tenda rossa, mangiano, mentre i servi offrono vino e prelevano pezzi di carne dai cesti.

Le stanze 26 e 27 sono a piante quadrangolare ed erano ambienti per il personale di servizio. La stanza numero 27 funge da vestibolo per la 26 ed è denominata SALA A OTTAGONI per via di ottagoni che racchiudono medaglioni con una rosa presenti nel pavimento.
Troviamo un pozzo di età normanna, proprio da qui si accedeva al portico nord del peristilio. La stanza numero 26 è chiamata SALA A DISEGNI QUADRATI per il motivo presente (quadrati appunto).

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Ambulacro della grande caccia
E’ un corridoio di 200 piedi romani (circa 60 metri) con funzione di disimpegno degli appartamenti imperiali posti a lato della basilica e di collegamento del peristilio con la grande sala del triclinio.
L’ambulacro alle due estremità è chiuso da esedre decorate con figure femminili, affiancate da animali, che raffigurano le due province estreme dell’impero romano: la MAURETANIA a sinistra e l’INDIA a destra.
Sul pavimento son raffigurati vari episodi di caccia. La parte sinistra del corridoio rappresenta le 5 province che formavano la DIOCESI DELL’AFRICA, in ogni provincia troviamo una scena raffigurante la cattura di un animale tipico del luogo:
-Mauretania (pantere)
-Numidia (antilopi)
-Tripolitania (cavalli selvatici)
-Proconsolare (leone berbero, oggi estinto)
-Bizacena (cinghiale).
Gli animali catturati son trasportati tramite carri detti angaria trainati da buoi al porto di Cartagine, dove verranno imbarcati su un veliero. Due servi trascinano sulla nave due struzzi e un caprone.
Più avanti troviamo un mosaico raffigurante lo sbarco nel porto di Ostia;
due funzionari assistono all’operazione.
Significativa la figura dell’elefante, presente solo in presenza dell’imperatore: questo avvalora la tesi a favore dell’imperialità della villa.
La parte del corridoio aperta verso il peristilio presenta una serie di colonne marmoree con capitello composito (corinzio-ionico). Più avanti al porto d’Alessandria d’Egitto vediamo un veliero, su cui viene imbarcato un elefante insieme ad un bisonte reso inoffensivo da un pezzo di legno posto sopra alle corna. Vengon inoltre catturati: dromedari, tigri, un ippopotamo e un rinoceronte.
Osservando le zampe degli animali si nota che son di colore diverso rispetto alla parte superiore del corpo, questo sta a simboleggiare che sono in acqua. Un nobile, riconosciuto da Orange (studioso) come Massimiano, assiste alla cattura protetto da due soldati con scudi.
Più avanti v’è un milite con scudo, sulla cui veste troviamo la croce uncinata, simbolo della rotazione solare nella forma del dio delle quattro stagioni.
Nella pare finale dell’ambuacro troviamo la cattura dei tigrotti da parte di un soldato a cavallo, che distrae intanto la madre lanciando una palla di vetro. Troviamo inoltre la cattura di un grifone e l’uccisione dell’asino selvatico, oggi estinto, ad opera di un leone.
Nell’esedra che chiude l’ambulacro c’è una figura femminile con la pelle scura, acconciatura a boccoli e zanna di elefante in mano. Rappresenta l’INDIA.
Dietro la ragazza si trovano una serie di strisce appese a un ramo per la cattura degli elefanti e l’araba fenice (uccello del mito, venerato a Heliopolis in Egitto).
Gli animali catturati erano esibiti al Circo Massimo e al Colosseo di Roma.

L’ambiente 29 fa da vestibolo al numero 30. Il pavimento è mosaicato con disegni geometrici e le pareti sono affrescate con figure. Vi si accedeva dal portico meridionale del peristilio quadrangolare.

Sala delle dieci ragazze in bikini
Ambiente preceduto da un vestibolo (stanza numero 29). Presenta un doppio pavimento: uno a disegni geometrici e uno, sovrapposto al primo in una fase più tarda, indica il mutamento d’uso della sala. Presenta ragazze vestite con subligar e stropkion impegnate in varie competizioni sportive: salto coi pesi in mano, lancio del disco, corsa campestre e gioco con la palla.
Le due vincitrici vengono incoronate e una riceve una corona di fiori e la palma della vittoria, mentre l’altra, con ruota raggiata in mano, sta per essere incoronata da una ragazza vestita con un manto aureo.
Segue a questo ambiente uno spazio per le condutture d’acqua, provenienti dal grande serbatoio, che alimentavano la grande fontana al centro del giardino del peristilio e i sevizi.

Diaeta di Orfeo
Sala rettangolare con esedra in fondo, nella quale si trova la statua marmorea di Apollo Liceo (copia romana di un’opera dello scultore ateniese Prassitele).
Sala destinata alle audizioni musicali. Al centro del pavimento Orfeo è raffigurato intento a suonare la cetra seduto su una roccia.
Orfeo (figlio di Eagro e Calliope) perse la moglie Euridice a causa di un morso di serpente ottenuto mentre la ninfa stava fuggendo inseguita dal pastore Aristeo (figlio di Apollo), che voleva sposarla.
Orfeo scende nell’Ade e addormenta Cerbero suonando la cetra.
Ade e Persefone si impietosiscono e concedono a Orfeo la sua amata ad una condizione: non si sarebbe dovuto voltare a guardarla finché non sarebbero usciti dall’Ade. Patto non rispettato da Orfeo che, voltandosi, vedrà Euridice svanire nel nulla.
Orfeo suona ancora la cetra e tutti gli animali della terra volgono lo sguardo verso di lui.
Quest’ultima parte è proprio quella che troviamo raffigurata nel pavimento della diaeta.
Orfeo da allora dimenticò l’amore e venne ucciso dalle menadi (donne seguaci di Dioniso, in preda alla frenesia). Nella morte si ricongiungerà con Euridice per l’eternità.
La cetra e parte delle membra del musico, gettate in mare, arrivano sulla riva di Lesbo. Questo mito siboleggia il potere della poesia e della musica sulle cose terrene.

Cortile privato
Mette in comunicazione gli appartamenti privati della famiglia imperiale con la sala del triclinio, costituendo l’ingresso privato del dominus o signore per raggiungere la grande sala da pranzo (triclinio). La soglia d’ingresso è ornata da colonne marmoree a testimonianza dell’importanza del cortile.

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Triclinio

Sala quadrata con profonde absidi sui tre lati. Qui erano ospitati a pranzo gli ospiti del dominus. Dentro una cornice troviamo le 12 fatiche di Ercole (commissionategli da Euristeo per ridicolizzarlo)
1) L’uccisione con la la forza delle braccia del leone di Nemea (invulnerabile alle armi), scuoiato da rcole che lo utilizzò come veste e dalla testa ricavò un elmo.2) L’uccisione dell’idra di Lerna.
3) La cattura del cinghiale d’Erimanto sul monte Erimanto.
4) La cattura della cerva di Cerinea (con piedi di rame e corna d’oro). L’animale era sacro a Diana ed Ercole, per non recare offesa alla dea uccidendolo, lo insegue per un anno riuscendo poi a catturarlo.
5) L’uccisione degli uccelli Stinfalidi, abitanti dello stago Stinfalo, si nutrivano di carne umana.
6) La conquista del cinto dell’amazzone Ippolita, regalatole da Ares, per esser poi donato alla figlia di Euristeo, Admeta. Ercole ucciderà Ippolita (una variante del mito narra che la diede in sposa a Teseo)
7) La pulizia delle stalle di Augia, re dell’Elide, che non venivan pulite da 30 anni.
8) La cattura del toro di Creta, che Poseidone aveva mandato sull’isola per punire Minosse (che aveva trascurato un sacrificio promesso). Ercole si carica il toro sulle spalle e lo porta da Euristeo.
9) La cattura delle cavalle di Diomede (figlio del dio Ares). Cavalle feroci nutrite con la carne di stranieri uccisi da Diomede. Ercole lo uccide e o fa sbranare dalle sue stesse cavalle.
10) La conquista dei buoi di Gerione (gigante con tre corpi figlio di Crisaore e Calliore). Ercole, oltre a uccidere Gerione, uccide il drago dalle sette teste e il cane bicipite Otros, posti a guardia dei buoi.
11) La conquista dei pomi aurei, custoditi dal drago Ladone. I pomi aurei si trovavano in Mauretania, in mezzo al giardino delle Esperidi (figlie di Atlante). L’abero dei pomi aurei era stato regalato da Gea (la terra) a Hera nel giorno delle sue nozze con Zeus.
Ercole pregò Atlante di coglierne alcuni, mentre lui avrebbe sostenuto la volta del cielo al posto del titano. Nel triclinio questa fatica è rappresentata da serpente con due teste ucciso dalle frecce di Ercole.
12) La cattura di Cerbero, cane a tre teste, figio di Echidna e Tifone. Le tre teste simboleggiano la distruzione di presente, passato e futuro. Ercole libera dal mondo dei morti Teseo, che toviamo rappresentato nel triclinio mentre tiene cerbero al guinzaglio.
Nell’angolo sud-ovest del pavimento ci sono mosaicati la prua dell’imbarcazione degli Argonauti diretti alla Colchide per la conquista del vello d’oro. Vediamo anche una mano verde di un mostro marino vinto da Ercole e la testa di Amicos (re dei Bebrici) grondante di sangue. In ogni angolo ci sono i cavalieri bistoni uccisi dalle frecce di Ercole. Nell’abside di sinistra c’è la glorificazione di Ercole. Ercole è posto al centro nudo, possente e muscoloso, con la pelle di pantera sulle spalle annodata sul petto. A destra un personaggio, probabilmente Zeus, lo incorona. A sinistra Iolao, suo inseparabile compagno, lo tiene per il braccio. Si vuol mostrare la glorificazione dell’imperatore Massimiano per le vittoria in Germania, in Britannia (dove sconfigge il ribelle Carausio, inginocchiato nell’angolo sinistro) e in Africa.
Nella fascia che collega le tre absidi, in corrispondenza di quella con la glorificazione di Ercole, ci sono le metamorfosi di Dafne e Ciparisso:
– Dafne, figlia di Peneo, era amata da Apollo. Per fuggire dal dio invocò l’aiuto del padre, che la mutò in una pianta di alloro. Apollo abbracciando la pianta sentì palpitare il cuore dell’amata: da quel giorno i rami fronzuti dell’alloro avrebbero incoronato poeti, imperatori e guerrieri valorosi.
– Ciparisso, giovinetto caro ad Apollo, volle morire dopo aver erroneamente ucciso il cervo dalle corna auree donatogli dal dio. Apollo, impietosito, lo mutò n cipresso: simbolo della tristezza e sacro ad Ades (dio dei morti).
Nell’abside centrale, contenente un basamento marmoreo su cui v’è un mezzobusto marmoreo rappresentante Ercole, si trova la cosiddetta Gigantomachia: cinque giganti tentano di togliersi le frecce, avvelenate dal sangue dell’idra, scagliate contro di loro da Ercole. La scena mostra la punizione dei giganti che avevano osato sfidare Zeus. I giganti nacquero, secondo il mito, dal sangue di Urano, caduto sulla Terra (Gea) quando fu evirato dal figlio Crono. I giganti sono immaginati con serpenti al posto dei piedi, erano infatti sopraffattori e malvagi.
Nella fascia di raccordo, sotto ai giganti, sono raffigurati Esiòne e Endimione.
-Esiòne è raffigurata mentre addita la bestia marina mortalmente ferita dalle frecce di Ercole. Laomedonte, re di Troia e padre di Esiòne e Priamo (Podarce), aveva il difetto di non mantenere le promesse: aveva tradito una promessa fatta a Nettuno, che lo aveva aiutato nella costruzione delle mura di Troia. Per punire Laomedonte, Nettuno scagliò il mostro nel territorio di Troia. L’oracolo sentenziò che sarebbe dovuta esser sacrificata Esiòne. Ercole uccise il mostro in cambio dei cavalli veloci e immortali in possesso del re di Troia. Laomedonte venne meno al patto e per questo fu ucciso.
-Endimione, bellissimo pastore della Caria, è semisdraiato con il braccio sollevato ad indicare Selene (luna) che cala. Il mito narra che Endimione fu condannato da Zeus a dormire per trent’anni sul monte Latmo, perché aveva osato correggere Hera. Artmide (Diana), innamorata del giovane, gli faceva visita ogni notte sotto le spoglie della luna per baciarlo con i raggi di luce lunare.
Nell’abside di destra è raffigurata la metamorfosi di Ambrosia. Al centro c’è la figura nuda e possente di Licurgo, re della Tracia, che tenta di uccidere con la “bipenne” la baccante Ambrosia, che ha già iniziato a mutarsi in pianta di vite, i cui tralci si avvinghiano attorno alle gambe del re della Tracia. Dietro a Licurgo troviamo il corteggio dionisiaco, ossia le tre menadi, una di loro scaglia contro al re una pantera (sacra a Dioniso). Dietro Ambrosia ci sono Dioniso, Pan e Sileno.
Nella fascia di raccordo sono raffigurate le teste di un caprone e di un cammello a indicare le metamorfosi di Ampelos e Kissos. Il mito narra che Dioniso, figlio di Zeus e Semele, durante un baccanale fu sorpreso da Licurgo (figlio di Driante e re della Tracia), che lo scacciò violentemente dal suo territorio uccidendo molti satiri e menadi e imprigionando coloro che erano scampati a quella strage. Licurgo proibì inoltre la coltivazione della vite nel suo territorio recidendo tutti i vitigni con la propria ascia. Il re della Tracia, reso folle da Zeus, uccise il proprio figlio scagliandolo per un tralcio di vite. Al grido di dolore le menadi e i satiri imprigionati furono liberati dalle catene e si scagliarono su Licurgo uccidendolo.

Portico ovoidale (Xystus)
Ampio triportico di forma ellittica con i lati lunghi ad ellisse terminanti in un’abside con tre nicchie, in cui dovevano essere statue marmoree. Vi è un cortile interno a cielo aperto, con fontana centrale e pavimento a mosaico con motivo a zig-zag contornato da lastre di calcare. I pilastri in muratura, un tempo sorreggenti la copertura spiovente verso il cortile centrale, erano foderati da lesene marmoree e sormontati da capitelli rettangolari. Bassi plutei chiudevano gli intercolumni dei pilastri-colonne. Ai lati dei due pilastri, di fronte la gradinata che da accesso al triclinio, si conservano glialvei di due fontane, mentre la composizione musiva che si stende nelpavimento del portico ovoidale, raffigura volute d’acanto, i cui girali racchiudono avancorpi di animali quali: tigri, leoni, lupi, cervi, cavalli ecc. I girali, di dimensioni inferiori, invece racchiudono palmipedi.
Gli affreschi parietali dei portici presentavano figure a grandezza naturale, i cui resti sono ancora oggi visibili nelle parti basse dell’alzato originale. Lungo i due lati più grandi di questo portico ovoidale si sviluppano 6 ambienti (tre per ogni lato) con pavimenti a mosaico. Meglio conservati sono quelli a nord, nei cui pavimenti, delimitati da cornici a 8 filari, sono
illustrati temi collegati alla produzione del vino. Il mosaico pavimentale dell’ambiente di sinistra, oggi completamente scomparso, raffigurava la coltivazione della vite; quello della stanza di destra la vendemmia; quello centrale la pigiatura dell’uva da parte di amorini.
Superbo, anche se un po’ lacunoso, il medaglione che campeggia al centro della composizione musiva della stanza di destra: una cornice ad onda racchiude una figura barbuta e coronata che tiene in mano un bastone, forse il dio Dioniso. Era in queste stanze che i commensali, dopo aver mangiato e poi bevuto e dopo aver fatto il famoso gioco del cottabo che dava diritto al vincitore di scegliersi un’etera (un’intrattenitrice), si appartavano (con le ragazze scelte) per dei lussuriosi incontri amorosi nei quali le etere erano vere professioniste.

Corridoio
Vicino all’abside del portico ovoidale c’è un corridoio che collega il peristilio quadrangolare con il portico ovoidale del triclinio. La soglia d’ingresso del peristilio quadrangolare è adorna di un mosaico raffigurante un kantharos (vaso romano) con volute di acanto, mentre il resto del pavimento presenta una decorazione musiva somigliante a quella del portico ovoidale: volute racchiudenti avancorpi di tigri,
cavalli, ecc. È da questo corridoio che i commensali potevano raggiungere il complesso Triclino – Portico Ovoidale.

Cucina
Due pietre sporgenti dal muro ci portano a pensare che un tempo questa sala fosse utilizzata come cucina. Un’area di servizio funge da mediatrice tra cucina e xystus. A seguire, appena fuori da questa stanza, costeggiando l’esedra, possiamo scorgere le stanza frequentate dalla famiglia imperiale.

Diaeta di Arione
Era questa la sala nella quale la domina o padrona della villa trascorreva piacevoli ed
oziosi soggiorni musicali e filosofici a carattere privato. Lussuosissimo ambiente ellittico, con grande abside finestrata e lunetta pavimentale caratterizzata da un bellissimo mosaico rappresentante la testa del dio Oceano (personificazione delle acque che circondano la terra) con chioma e barba ornate di rosse chele di gambero e con bocca aperta, da cui fuoriescono creature marine, presenta il pavimento avvallato verso nord. Una cornice a meandro (con greche) delimita la superficie pavimentale in cui è mosaicato il poeta Arione che, attorniato da grifi e pantere, da tigri e leoni, da cervi e lupi, da ippocampi e tritoni, da centauri portanti cofani di perle e da nereidi che si specchiano o che offrono cibo ai mostri marini, suona la cetra seduto sul dorso di un delfino. Sopra Arione, rappresentato col manto fluttuante e con cappello sormontante le lunghe chiome, due amorini svolazzanti sorreggono un parapetasma di colore rosso. Altri due amorini mettono sotto i piedi del poeta un cuscino rosso. L’ingresso di questa sontuosa diaeta, fronteggiante l’atrio ad esedra, è fiancheggiato da colonne marmoree sormontate da capitelli di ordine corinzio. Lungo le pareti, un tempo incrostate di pregevoli lastre marmoree si aprono quattro finestre, che permettevano alla luce di illuminare la sala.

Atrio Porticato
Atrio Porticato con impluvium per la raccolta d’acqua piovana. La sua funzione era mettere in collegamento i cubicula (camere da letto) dei figli del proprietario con la grande diaeta di Arione, la sala di soggiorno della domina della villa. Il motivo mosaicato, delimitato da una cornice prospettica, è di genere marino: amorini su barche pescano vari tipi di pesci con reti, nasse, fiocine e lenze. Cinque edifici uniti da portici e coperti da tetti a doppio spiovente ed una cupola, da cui spuntano chiome di alberi, circondano la scena marina, ci sono poi amorini che giocano in mezzo al mare con anatre selvatiche. Portici semicircolari sono presenti nelle fastose domus romane della classe dirigente senatoriale. Le quattro colonne marmoree attornianti un ninfeo e sorreggenti il compluvium che indirizzava l’acqua piovana nell’impluvium, pavimentato con lastre di calcare locale, sono sormontate da capitelli in stile ionico. Le pareti presentano affreschi raffiguranti giovinetti nudi entro una riquadratura di colore rosso pompeiano.

Cubicolo del piccolo circo
Aula rettangolare con pavimento a mosaico, fungeva da vestibolo al cubicolo interno. La decorazione musiva pavimentale mostra una parodia dei Ludi Circensi, che richiama le are con bighe al Circo Massimo i Roma. La spina centrale, delimitata dalle metae laterali ed adorna dell’obelisco di Augusto, divideva l’arena del circo in due parti. Nella prima parte, da destra a sinistra, sono raffigurate le fazioni Russata (Rosso) ed Albata (Bianco); nella seconda parte sono la Venata (Azzurra) e la Prasina (Verde), che ha vinto la gara e riceve la palma della vittoria. Al posto dei cavalli, qui vi sono fenicotteri, oche bianche, trampolieri e colombacci, che tirano i carri con bambini-aurighi. Oltre a rappresentare le quattro fazioni, le bighe rappresentano le stagioni. Le rose attorno al collo dei fenicotteri indicano la primavera; le spighe delle oche bianche l’estate; i grappoli d’uva dei trampolieri l’autunno; le foglie attorno al collo dei colombacci l’inverno. Una cornice a meandro spezzato circonda la superficie mosaicata. Le pareti mostrano tracce di decorazione pittorica a scomparti.

Cubicolo con musici ed attori
Ambiente rettangolare con abside decorata da colonne marmoree (sono rimaste solamente le basi) e con pavimento a mosaico, costituiva la camera da letto (dormitorium, cubiculum) di uno dei figli del proprietario della villa. La lunetta pavimentale dell’abside, delimitata da una cornice a triangoli, presenta una scena figurata in eccellente stato di conservazione: ai lati di un albero, su cui campeggia una foglia di edera, simbolo della stirpe Herculea, sono due giovinette che, sedute sui cesti, intrecciano corone di fiori appese ai rami dell’albero. Più in basso è una trapeza con sopra copricapi diademati (simboli regali) sormontati da corone di fiori e fiancheggiati da sacchetti, con premi destinati al vincitore. Nel resto della superficie pavimentale a mosaico e su tre distinti registri è rappresentata una gara di musici e di attori. Nel registro superiore sono raffigurati cinque personaggi che suonano diversi strumenti: cetra, siringa, tibia, tuba. Quasi tutte le figure hanno il capo cinto da ghirlande di fiori. Nel registro mediano vi sono figure femminili facenti parte di un coro, altre intente a suonare uno strumento musicale. Al centro, su base in muratura, c’è un oggetto circolare con lettere greche e ci sono figure maschili con tunica lunga che tengono appesi al collo tamburi. Nel registro inferiore vi sono altri fanciulli e fanciulle che, vestiti con abiti sontuosi, suonano altri strumenti. Vi è un altro oggetto circolare con lettere greche. Alcuni studiosi hanno voluto vedere in questa scena figurata feste pagane del mese di maggio o comunque di primavera. Nel corso della festa in onore di Cerere (Cerealia) erano previste gare al Circo Massimo di Roma (nel vestibolo del piccolo circo è rappresentata una gara al Circo). Le pareti erano adorne di decorazioni pittoriche, su cui furono poste lastre marmoree in una seconda fase.

Vestibolo di Eros e Pan
Mito di Pan: Pan, figlio di Mercurio e della ninfa Penelope, nato con i piedi di capra, due corna in fronte e barba, era talmente brutto che la madre quando lo partorì rischiò la morte per lo spavento; mentre il padre lo portò nella dimora degli dei, nell’Olimpo. Pan si innamorò di Siringa, ninfa d’Arcadia, la rincorreva per sottometterla alle sue voglie e, quando stava per raggiungerla, il padre di Siringa intervenne trasformandola in canneto che, ondulando al vento, provocava rumore, che Pan scambiò per un lamento. Pan, per avere un ricordo dell’amat, tagliò 7 canne (7 note musicali) e disponendole in ordine decrescente creò lo strumento musicale chiamato siringa.
Aula rettangolare con superficie pavimentale a mosaico, le pareti presentano tracce di decorazione pittorica. Nel pavimento, dentro una cornice a foglie, c’è il mosaico policromo di Eros e Pan impegnati in uno scontro dall’esito incerto. Un corteggio, composto da tre menadi con tirsi in mano e da un satiro con un pendum (bastone ricurvo) nella mano sinistra, tifa per Pan. In primo piano c’è l’arbitro, che, con barba a punta, capo cinto da una corona vegetale e braccio steso, da inizio alla lotta. Al gruppo che tifa per Pan fa rispondenza ad un gruppo di fanciulli e fanciulle che tifano per Eros. In quest’ultimo gruppo, alcuni studiosi hanno voluto vedere i componenti della famiglia dell’imperatore Massimiano (Massenzio, Fausta, Eutropia, Teodora e un’ancella). Sopra le due divinità compare una trapeza rettangolare su cui ci sono copricapi pannonici con rami di palma, mentre sotto ci sono due sacche contenenti il valore segnato all’esterno. Altri studiosi hanno interpretato le due sacche come segno dell’equità, a voler dire che tutti e due i contendenti partono dallo stesso piano, nessuno dei due è avvantaggiato. Infatti il numero delle figure dietro Pan corrisponde a quello dietro Eros, dando così alla scena una visione perfettamente bilanciata.

Cubicolo dei fanciulli cacciatori
Era la camera da letto di uno dei figli del ricco proprietario della villa. Presenta l’alcova rettangolare, un tempo adorna di colonne marmoree, e pareti rivestite di marmo in una seconda fase. La composizione musiva pavimentale, articolata in due parti, è di genere figurato. Quella dell’alcova è divisa in due registri:
Nel primo registro ci sono due fanciulle che raccolgono delle rose dagli alberi.
Nel secondo ci sono altre due fanciulle che costruiscono ghirlande appese al ramo di un albero.
Nella soglia d’ingresso all’alcova è raffigurato un giovane che porta sulle spalle una pertica, alle cui estremità sono cesti pieni di fiori. Nell’anticamera è mosaicata una scena di caccia divisa in tre registri.
In quello superiore appaiono un fanciullo che col venabulum infilza una lepre, a destra un altro fanciullo tiene al guinzaglio un palmipede, mentre al centro c’è un ragazzo che spinge la lepre in direzione del suo compagno. In quello mediano vi sono gli animali che cacciano i bambini: a sinistra una donnola morde al polpaccio un bambino che sanguina; al centro c’è un ragazzo che chiama aiuto; a destra un gallo becca un bambino caduto a terra. In quello inferiore ci sono un fanciullo che caccia un pavone, un ragazzo reggente uno scudo, a destra vi è raffigurata la caccia ad una capra col venabulum. Della ricca decorazione pittorica parietale è rimasta ben poca cosa: la figura di una inserviente che regge nelle mani una cassetta; quadrati rossi e triangoli gialli.

La grande basilica
La grande basilica è la stanza regale. L’ambiente era costituito da una navata rettangolare con ingresso adorno di due colonne di granito e di una gradinata di accesso, in asse col centro del peristilio e in corrispondenza della terra fra i due mari raffigurata nel grande mosaico della caccia simboleggiante la città di Roma unificatrice dei popoli; in fondo un emiciclo o abside originariamente doveva contenere una statua di Ercole. Al centro vi era un podio per il magistrato. Era la sala di rappresentanza per i ricevimenti nelle ville private dell’aristocrazia. Questo era un modo per il dominus di esibire la propria posizione sociale di fronte alla clientela. Il problema dei rapporti fra basilica pagana e basilica cristiana è oscuro; ma è quasi certo che quest’ultima sia l’erede di quella, almeno sotto il profilo architettonico.

Vestibolo di Polifemo
Dall’ambulacro della grande caccia si accedeva a questo ambiente di lusso, con pavimento a mosaico e pareti decorate con quadretti figurati. Fungeva da vestibolo alle stanze più interne destinate a camere da letto. La superficie pavimentale, delimitata da una banda a cinque filari, è adorna di uno splendido mosaico raffigurante Ulisse e Polifemo dentro una grotta. La gigantesca figura di Polifemo regna al centro del vasto quadro ispirato all’epos omerico. Egli, seduto su un grande masso, tiene sulla gamba sinistra un ariete sventrato, mentre con la mano destra si accinge a prendere il cratere di vino che l’eroico Ulisse, vestito con corta tunica e pileo in testa, gli offre con l’intento di ubriacarlo e poi accecarlo nell’occhio posto sulla fronte (come dice Omero nell’Odissea). Dietro Ulisse ci sono due suoi compagni intenti a riempire un altro cratere di vino da offrire al Ciclope. Tutt’intorno vi sono pecore e arieti del gregge di Polifemo. Il tutto si svolge dentro l’antro del Ciclope, che la tradizione orale collega con una grotta presso Milazzo. Polifemo, raffigurato con tre occhi, è rappresentato nel binomio di Umano-Divino (dunque il discorso che i tre occhi personificano i crateri dell’Etna o che le maestranze abbiano commesso un errore non conoscendo la mitologia, lascia il tempo che trova). L’opera esprime l’intelligenza di Ulisse contro la forza bruta di Polifemo.

Cubicolo della Scena erotica
Spaziosa e fastosa camera con alcova rettangolare scandita da pilastri poligonali. Era questo l’ambiente destinato a camera da letto per il proprietario della villa. Presenta il pavimento a mosaico, il cui motivo è un complicato intreccio di disegni geometrici e figurati. Il disegno presenta un dodecagono con ghirlanda d’alloro entro cui vi è una scena erotica: un’avvenente signora nel baciare un efebo (reggente nella mano sinistra un secchio e nel manto della frutta) scopre le grazie che madre natura le ha donato, un bellissimo fondoschiena. Piccoli quadrati ed esagoni, contenenti mezzibusti personificanti le stagioni, generano stelle con tondi centrali contenenti ghirlande e maschere. Una composizione a “Guilloche” chiude questo splendido tappeto musivo. Nel pavimento dell’alcova rettangolare, chiusa da una cornice ad arco acuto, si estende un’altra composizione geometrica a cerchi denticolati, il cui incrocio genera fiori quadripetali, mentre nella fascia d’ingresso all’alcova, tra i due pilastri poligonali, vi sono fanciulli e fanciulle che giocano con delle palle poste a terra dentro un cerchietto scompartito o disposti in fila. Le figure presentano l’ombra ai piedi. Le pareti di questo cubicolo, sono adorne di affreschi raffiguranti rombi generati da triangoli a fascia rossa, posti ai quattro lati, entro cui risaltano, su fondo celestino, graziose figure a grandezza naturale di menadi e satiri danzanti, che ben si addicono alla sua destinazione quale luogo di incontri amorosi tra il proprietario e le sue concubine. Menadi e satiri facevano parte del corteo chiamato thiasos al seguito del dio del vino, dell’ebrezza e dell’amore, Bacco o Dioniso. Le menadi, spesso erano rappresentate col tirso in mano, ubriache e folleggianti in danze sfrenate e coi satiri si abbandonavano a vere orge senza alcun ritegno.

Cubicolo della frutta
Ambiente quadrangolare, con alcova ad esedra e pavimento a mosaico, destinato forse a camere da letto per la proprietaria della villa (o a studiolo del proprietario). Il motivo che informa il mosaico pavimentale è la sovrapposizione e intreccio di tre quadrati, che generano all’esterno stelle a dodici punte, all’interno dodecagoni con festoni d’alloro racchiudenti cesti di frutta: melegrane, pere, mele, meloni, pesche, cedri, fichi, angurie ed uva. Le stelle sono collegate tra loro da losanghe generanti ottagoni campiti da rosette. Una cornice a meandro spezzato circonda la composizione musiva. L’alcova ad esedra, con accesso abbellito da pilastri poligonali dipinti e con fasce di passaggio tra il vano quadrangolare e l’esedra presentante amorini folleggiatiti, è adorna di uno splendido mosaico pavimentale: una cornice composita a “Guilloche” racchiude la superficie pavimentale, in cui si stende un prezioso tappeto musivo con fiori. Copiosa e fine doveva essere la decorazione pittorica parietale di soggetto mitologico: alla parete di sud si intravede un amorino o forse un giovinetto nudo con una situla in mano sovrastatovda finestre con inferriate rosse. Uno strato duro di calcare ricopre gli affreschi delle altre pareti.

Affreschi
Essi ci sono pervenuti con molte lacune, aggravate dall’azione degli eventi atmosferici e dalla totale mancanza di restauri.
In alcuni ambienti la pareti sono affrescate con soggetti mitologici a grandezza quasi naturale; in altri con figure quasi umane, come nel cubicolo dei fanciulli cacciatori. Contrariamente all’esterno, la palestra e la latrina sono dipinti a finto rivestimento marmoreo.
Una particolare importanza al fine dell’imperialità della villa è accentuata da affreschi del portico sud del peristilio; essi raffigurano soldati muniti di grandi scudi, simili stilisticamente a quelli che si trovano affrescati nella sala del culto imperiale del tempio di Ammon a Luxor, che rendono omaggio a un imperatore tetrarchico (attribuiti ad una scuola imperiale operante intorno al III secolo d.C.).

SIRACUSA

ANFITEATRO ROMANO:

Luogo: Siracusa, Colle Temenite

Epoca: tra il I ed il II secolo d.C.
Corrente artistica di riferimento: arte romana tardo-antica

Pianta: L’anfiteatro ha una pianta ellittica, scavata nella roccia, con due ingressi opposti (uno situato a nord ed uno a sud) e gradinate concentriche divise da due deambulatori; al centro vi sono l’arena ed un sotterraneo, dove erano posti i macchinari per gli spettacoli.
Alzato:La cavea era divisa dall’arena da un podio (probabilmente rivestito di marmo) su cui poggiava la prima fila di gradini, destinata agli ospiti di riguardo, i cui nomi erano inscritti nella balaustra del parapetto; la scalinata, alla quale si accedeva tramite un complesso sistema di gradinate interne, procedeva quindi interrotta solamente da corridoi, di cui l’ultimo fungeva da coronamento dell’anfiteatro, di questo sono state rinvenute alcune colonne. Il perimetro esterno doveva essere formato da pilastri ed archi, in modo simile al Colosseo, con solo delle semicolonne come decorazione.
Decorazioni: Se si esclude il rivestimento di pietra atto a nascondere la qualità scadente della pietra con cui era stato costruito, l’anfiteatro doveva abbastanza spoglio, senza decorazioni particolari, eccetto semicolonne ai lati degli archi ed il porticato che coronava l’anfiteatro.
Inserimento urbanistico e territoriale: L’anfiteatro si trova sul colle Temenite a Siracusa, tuttavia è orientato in modo obliquo rispetto alla Neapolis, che si trova sullo stesso colle, mentre si allinea con l’impianto di Acradina. L’edificio è stato scavato direttamente nel colle, escluso il lato sud, e vi si poteva accedere tramite due ingressi posti a nord ed a sud, Quest’ultimo dava su di un piazzale verso cui convergeva l’asse viario che divideva la Neapolis dall’Acradina.
Edifici e strutture adiacenti: Appena oltre l’ingresso nord era situata una fontana, che riceveva acqua da una cisterna oggi conservata sotto la chiesa di San Nicolò; inoltre in tempi recenti dei sarcofagi provenienti dalle necropoli di Siracusa e Megara Iblea sono stati posizionati in uno spazio non distante dall’anfiteatro. L’anfiteatro è inoltre inserito nel parco archeologico della Neapolis, pertanto vicino al Teatro greco ed alla Latomia del Paradiso.

Storia: L’anfiteatro venne probabilmente iniziato sotto il regno di Nerone, ma assunse la forma odierna solo nel III-IV secolo d.C. Nel XVI secolo d.C. venne quindi spogliato dei materiali, utilizzati per fortificare Ortigia, mentre verrà riportato alla luce nel 1839 dal duca di Serradifalco.

Restauri e modifiche:
I-II secolo d.C.: Inizia la costruzione dell’anfiteatro
III secolo d.C.: Viene ricostruito nella forma di cui oggi vediamo i resti.
XVI secolo d.C.: Viene spogliato della quasi totalità della pietra, utilizzata per le fortificazioni.
1839: Scavi archeologici da parte del duca di Serradifalco.

SIRACUSA: TEATRO GRECO

Architetto: Damocopos detto Myrilla
Luogo: Siracusa, Colle Temenite
Epoca: V secolo a.C.
Corrente artistica di riferimento: Arte greca classica
Pianta: La pianta era in origine formata da una cavea, divisa in nove settori, a forma di ferro di cavallo, un’orchestra di forma semicircolare e da un edificio scenico di pianta rettangolare; una scala portava inoltre da una stanzetta sotterranea direttamente sul palcoscenico, permettendo agli attori di compiere apparizioni ad effetto. In epoca romana la pianta della cavea divenne semicircolare ed all’edifico scenico furono aggiunti due corridoi per accedervi dai lati, inoltre il canale che divideva l’orchestra dalla cavea venne sostituito da uno più a ridosso dei gradini.
Alzato: La cavea (di cui oggi restano solamente 46 gradini) era divisa in nove settori, detti cunei, a cui erano abbinati i nomi dei membri della famiglia reale e di alcune divinità, era inoltre divisa ulteriormente in due da un corridoio (diazoma). Tutto il teatro era costruito tenendo conto sia dell’acustica sia del panorama, che offre la visione dell’isola di Ortigia, nonostante un tempo fosse seminascosta dalla scena.
Decorazioni: Non si conosce molto della decorazione di questo teatro, tuttavia è stata ritrovata una cariatide (oggi conservata al Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi), che probabilmente faceva parte dell’edificio scenico.
Inserimento urbanistico e territoriale: Il teatro è situato nel parco archeologico della Neapolis, sul lato sud del colle Temenite a Siracusa.
Edifici e strutture adiacenti: Appena sopra la cavea si trova una terrazza, che in origine ospitava un portico ad L, questa era accessibile tramite una strada incassata nota come “via dei sepolcri” oppure tramite una gradinata centrale; la parete rocciosa di fondo presenta inoltre una grotta-ninfeo, da cui il teatro attingeva l’acqua.
Storia: Il teatro venne costruito nel V secolo a.C., tuttavia nel III secolo a.C. venne ricostruito nella forma che vediamo oggi. In epoca romana subì altre modifiche per adattarlo alle esigenze dell’epoca, ad esempio l’orchestra venne modificata in modo da poter ospitare giochi acquatici. Il teatro venne progressivamente abbandonato, al punto tale che nel 1526 venne smantellato in larga parte, in modo da utilizzarne la pietra per fortificare Ortigia, mentre l’acquedotto venne riattivato per poter installare dei mulini. Dalla fine del 1700 riprese l’interesse per il teatro e scavi archeologici proseguirono fino al 1988, mentre dal 1914 ripresero le rappresentazioni delle antiche opere greche.
Restauri e modifiche:
III secolo a.C.: il teatro fu ricostruito quasi totalmente
prima età augustea: modifiche alla pianta, alla scena ed all’euripo
età tardo-imperiale: modifica all’orchestra per permettere giochi acquatici
1526: spoliazione del teatro per fortificare Ortigia
seconda metà del 1500: riattivazione dell’acquedotto ed inserimento di alcuni mulini nelle vicinanze
da fine 1700 fino al 1988: vari scavi archeologici
1914: riprendono le rappresentazioni

  SIRACUSA: ORECCHIO DI DIONIGI O DI DIONISO

L’Orecchio di Dionigi (o Orecchio di Dionisio) è una grotta artificiale che si trova nell’antica cava di pietra detta latomia del Paradiso, poco lontano dal Teatro Greco di Siracusa.
Scavata nel calcare, la grotta è alta circa 23 m e larga dai 5 agli 11 m e si sviluppa in profondità per 65 m, con un andamento ad S.
Secondo la leggenda, la sua particolare forma ad orecchio d’asino fece coniare al pittore Caravaggio, recatosi nella città Aretusea nel 1608 in compagnia dello storico siracusano Vincenzo

Mirabella, l’espressione Orecchio di Dionisio. Secondo la tradizione infatti il tiranno Dionisio fece scavare la grotta dove rinchiudeva i prigionieri e, appostandosi all’interno di una cavità superiore,

ascoltava i loro discorsi. Grazie alla sua forma, l’Orecchio di Dionisio possiede caratteristiche acustiche tali da amplificare i suoni fino a 16 volte. Secondo alcuni la presenza della cavità sotto la cavea del Teatro Greco favorisce l’acustica dello stesso teatro.
Recentemente è stato proposto dai Platonici di rinominare l’Orecchio di Dionisio “Caverna di Platone”, considerando il fatto che il filosofo ateniese fu uno dei prigionieri del tiranno siracusano e che, nei libri centrali della “Repubblica”, il mito della caverna è evocato con immagini che richiamano da vicino la cava di Siracusa.
Caravaggio ambientò in questa latomia il celebre quadro Il seppellimento di Santa Lucia.

VIA MAESTRANZA

Antico asse della città medievale, divenuto già dal sec. XVI strada rappresentativa della nobiltà locale, mostra un susseguirsi pressoché ininterrotto di antichi palazzi, trasformati in epoca barocca e

abbelliti da cornicioni, mascheroni, balconate in ferro battuto rette da mensole scolpite.

dentificazione dell’opera
Denominazione: Palazzo Impellizzeri
Luogo: Isola di Ortigia (Siracusa)
Epoca: 1894
Correnti artistiche di riferimento: Barocco, Rococò

Descrizione dell’esterno
L’edificio fonde lo stile barocco al neoclassico; al primo livello presenta un grande portale sormontato dallo stemma nobiliare della famiglia e diversi pilastri inquadrano sia il portale che le finestre, nel piano superiore fa bella mostra di sè un balcone lungo quanto tutto il prospetto racchiuso da una inferriata in ferro battuto. Tutte le finestre e i balconi (tranne quello centrale che è sormontato da timpano semicircolare) sono sormontati da travetti rettangolari. All’ingresso del palazzo ci sono due lapidi commemorative riguardanti la famiglia Impellizzeri.
La presenza anche dello stile rococò è confermata dal fregio sopra il balcone principale.
Il prospetto presenta una trabeazione decorata con motivi floreali e sul cornicione volti umani.
Sulla facciata si susseguono finestre e balconi dalle linee sinuose.

Descrizione dell’interno
Le stanze sono decorate con stucchi del 700 e vi si trovano tele settecentesche, mobili antichi e superbi lampadari in ferro battuto. Tra le stanze ve n’è una chiamata Sala d’Armi, che si differenzia dalle altre per il grandissimo e bellissimo affresco raffigurante lo stemma della nobile famiglia Impellizzeri.
Sulla pavimentazione policroma interna si trovano gli stemmi dei casati e la lettera “G” che indica l’appartenenza ai Loggia.
Oggi il pianoterra ospita gli uffici dell’Archivio di Stato della Provincia di Siracusa.

Inserimento urbanistico e territoriale
Ortigia, via della Maestranza, civico 99.
Attuale sede della Facoltà di Architettura.

Notizie storiche
E’ stato edificato nel contesto creatosi in seguito agli sforzi post-sisma, che hanno dato vita ad un concetto di urbanistica svincolato dai canoni del momento, in cui i diversi palazzi barocchi risentirono dell’influenza del Rococò.

Identificazione dell’opera
Denominazione: Palazzo Zappata-Gargallo
Luogo: via Maestranza, isola di Ortigia (Siracusa)
Epoca: XV-XVIII secolo
Corrente artistica di riferimento: Barocco

Descrizione
La facciata principale presenta un elegante portale architravato a bugne lisce.
Spiccano inoltre gli eleganti balconi e il grande stemma di famiglia sul cantonale. Oltre alla muratura quattrocentesca, l’edificio originario mantiene per lo più la propria altezza.
Gli elementi settecenteschi aggiunti ne hanno determinato l’immagine barocca.
L’accesso al palazzo è garantito da un portale arcuato posto al centro della parte inferiore della facciata (con parete a gradoni), ai cui lati vi sono sei aperture arcuate (tre per lato) comunicanti con locali staccati dal palazzo adibiti ad esercizi turistico – commerciali (locali di ritrovo o negozi). L’interno del Palazzo Gargallo è adibito ad uso abitativo – commerciale.
Sulle facciate sul cortile spiccano elementi architettonici dell’epoca, in particolare la caratteristica scala esterna in stile catalano, con cornice a risega.

Notizie storiche
Dal XVII secolo il palazzo è stato di proprietà della famiglia Gargallo, che ne ha presumibilmente promosso la ristrutturazione.

Affreschi
Ad opera di Ernesto Bellandi, che pochi anni prima aveva affrescato la volta del teatro Massimo di Catania.

Identificazione dell’opera
Denominazione: Palazzo Bufardeci
Luogo: via Maestranza, isola di Ortigia, Siracusa
Epoca: 1693
Corrente artistica di riferimento: Barocco

Descrizione
Dimora di origine nobiliare tra le più eleganti, impone la sua opulenza con l’ornato della ricchissima facciata a partitura simmetrica e la sequenza dei balconi sorretti da belle mensole figurate.
L’edificio, la cui facciata mostra una trama compositiva riferibile all’età del barocco ante 1693, non ha rivelato preesistenze più antiche certe. Ne parlano i Riveli del 1811-1835.
Varcato l’ingresso, in cui una soglia porta incisa la data del 1840, si stende un magnifico portico con quinte murarie ad altissimo impianto, di grande effetto scenografico.

Identificazione dell’opera
Denominazione: Tempio di Apollo
Luogo: isola di Ortigia (Siracusa)
Epoca: VI secolo a.C.
Corrente artistica di riferimento: arte greca arcaica (stile dorico)

Descrizione della pianta
Il tempio misura allo stilobate 55,36 x 21.47 metri, con una disposizione di 6 x 17 colonne di proporzione piuttosto tozza. Rappresenta, nell’occidente greco, il momento di passaggio tra il tempio a struttura lignea e quello completamente lapideo, con fronte esastilo ed un colonnato continuo lungo il perimetro che circonda il pronao e la cella divisa in tre navate con due colonnati interni, più snelli, posti a sostegno di una copertura a struttura lignea di difficile ricostruzione. Sul retro della cella si trovava un vano chiuso (adyton) tipico dei templi sicelioti.

Descrizione
I resti permetto di ricostruire l’aspetto originario del tempio, che appartiene al periodo protodorico e presenta incertezze costruttive e stilistiche, come l’eccessiva vicinanza delle colonne poste sui lati, le variazioni dell’intercolumnio, l’indifferenza alla corrispondenza tra triglifi e colonne ed aspetti arcaici come la forma planimetrica molto allungata. L’architrave risulta insolitamente alto, anche se alleggerito posteriormente formando una sezione a L.
Non mancano aspetti assolutamente sperimentali, come l’importanza dedicata al fronte orientale con doppio colonnato ed intercolumnio centrale più ampio e più in generale la ricerca più di un’enfasi rappresentativa che di un’armonia proporzionale.
La pioneristica costruzione fu un modello per l’affermarsi del tempio dorico periptero in Sicilia, rappresentando una sorta di prototipo locale, che affiancava aspetti legati a modelli della madrepatria con altri peculiari che si affermeranno solo in Magna Grecia, come la presenza dell’adyton, probabile sede dell’immagine sacra e centro compositivo dell’intera costruzione.

Inserimento urbanistico e territoriale
Antistante alla piazza Pancali nell’isola di Ortigia.

Notizie storiche
Tempio dorico più antico della Sicilia.
Subì diverse trasformazioni: fu chiesa bizantina, di cui si conservano la scalinata frontale e tracce di una porta mediana, e poi divenne moschea islamica. Successivamente si sovrappose agli edifici precedenti la chiesa normanna del Salvatore, che venne poi inglobata in una cinquecentesca caserma spagnola e in edifici privati, rimanendo comunque visibili alcuni elementi architettonici. Tali successive sovrapposizioni danneggiarono gravemente l’edificio, che fu riscoperto intorno al 1860 all’interno della caserma e venne riportato interamente alla luce grazie agli scavi effettuati da Paolo Orsi negli anni tra il 1938 e il 1942.
L’impresa di costruire un edificio con 42 colonne monolitiche, trasportate probabilmente via mare, dovette sembrare eccezionale agli stessi costruttori, vista l’insolita presenza sull’ultimo gradino del lato est di un’iscrizione dedicata ad Apollo, in cui il committente (o l’architetto) celebra l’impresa edificatoria, con un’enfasi che tradisce il carattere pioneristico della costruzione.

CASTELLO DI MANIACE

-Architetto: Il castello venne realizzato dall’architetto Riccardo da Lentini su incarico di Federico II
-Denominazione: Castello di Maniace
-Luogo (città): Siracusa- Isola di Ortigia
-Epoca: 1232-1240
-Corrente artistica di riferimento: Barocco
– Descrizione della pianta: Il Castello Svevo si presenta come una solida struttura di 51 metri per lato a pianta quadrata, una figura geometrica che permette il controllo visivo totale dell’interno e dell’esterno, con le sue quattro torri cilindriche agli angoli. Tutte le costruzioni di Federico II sono ispirate a forme geometriche, come ad esempio rettangolo, il quadrato e l’ottagono con chiaro riferimento agli insegnamenti di Vitruvio. Unico ambiente, la sala è determinata da 16 colonne libere che sorreggono 25 volte a crociera, da 4 semi colonne angolari e da 4 semi colonne a parete per ogni lato.
-Descrizione dell’esterno : Al centro troviamo il portale d’ingresso ad arco ogivale rivestito da marmi policromi e sormontato dallo stemma imperiale di Carlo V raffigurante un’aquila bicefala (a due teste), lastroni laterali in marmo, chiave di volta incompleta, lunetta e architrave mancante perché fu tranciata nella parte centrale. Il portale ha un’altezza di m 8,08, lo strombo misura in profondità m 1,45. Esso presenta ai due lati fasce di colonnine impostate su piccole basi multiple, le quali sorreggono piccoli capitelli a calice con le foglie uncinate. Al di sopra dei capitelli, sulle mensole che ne seguono l’andamento movimentato, spiccano quattro figure zoomorfe (due per lato), oggi imperfette, probabilmente leoni alati o ippogrifi. La collocazione nelle nicchie di queste due splendide opere d’arte ellenistiche rivela il profondo interesse che Federico II nutriva anche per la cultura classica, ma l’accostamento sia materiale che visivo con i leoni alati o ippogrifi, simboli per eccellenza di forza, ci induce a riflettere sulla complessa figura intellettuale dell’Imperatore ( ippogrifi e arieti: forza e leggiadria). Nei suoi vari elementi spicca la cornice finemente decorata con una successione di foglie. La forza dell’arco ogivale viene sottolineata dalla serie di tratti a zigzag nel frontone superiore. Il portale era forse munito della saracinesca e della porta. Troviamo poi due nicchie laterali sorrette da pedicelli, che ospitavano i due famosi arieti bronzei (uno di essi è oggi conservato al museo archeologico di Palermo, l’altro è andato perduto o distrutto nel 1848). Nei pressi della torre ovest si trova il Bagno della Regina. Vi si accede da una porta aperta nel paramento murario, scendendo poi da una scala intagliata nella viva roccia. Si narrava che fosse spazioso ed adorno di marmi, con sedili e vasche, nella realtà si tratta solo di un piccolo ambiente, ed è una fonte di approvvigionamento idrico del castello.
-Descrizione dell’interno: Il centro geometrico della sala ipostila era particolarmente enfatizzato da quattro gruppi di colonne realizzate, anziché in calcare, in marmo e granito. La diversità del materiale usato, oltre a creare un gradevole gioco cromatico aveva funzione di scaricare la somma delle spinte di tutte le crociere. Le colonne sono realizzate in pietra calcarea, hanno forma cilindrica, poggiano su basi poligonali e culminano con capitelli polistili ricoperti da uno strato di latte di calce. I capitelli presentano 2, 3 o 4 ordini di foglie ascendenti (di acanto, di palma, di vite) che si chiudono a crochet. Nel punto dove le foglie formano l’uncino troviamo scene agresti, figure umane, serpenti attorcigliati e frutti. Lungo i lati nord-ovest e sud-est della sala erano stati realizzati quattro grandi camini, due per lato, ma le cappe sono andate perdute. Riguardo la copertura della sala, al di sopra dei capitelli, dagli abachi si dipartono i costoloni a sezione quadrata con angoli smussati. Essi hanno struttura portante soltanto nei primi conci che si intersecano con la muratura delle volte. Le volte sono formate da conci in calcare bianco-giallastra e in pietra lavica. La tecnica impiegata vede la messa in opera dei conci a “spina-pesce” o a “zig-zag” saldati con la malta. Intorno al 1980 vennero scoperte le basi dei piedritti della campata centrale, invece di colonne cilindriche, come negli altri casi, si trattava di un tipo particolarmente elaborato e ricco di pilastri a fascio, ognuno composto da tre colonne marmoree. La grande sala del castello traeva luce da 15 finestre e dall’atrio centrale. Lungo la parete sud- ovest si nota un profondo dirottamento, relativo ad una finestra monumentale, unica nel castello, che guarda sul Porto Grande. Si ritiene che la sala ipostila così vasta e così come è strutturata, con le sue colonne libere e le sue volte, non potesse validamente sostenere l’enorme peso che un secondo livello a sviluppo integrale avrebbe comportato.
– Inserimento urbanistico e territoriale: Il Castello di Siracusa sorge sull’estrema punta orientale dell’Isola di Ortigia.
– Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale): In corrispondenza della torre sud e della torre est si osserva la presenza di 2 piccoli ambienti rettangolari con copertura a crociera: sono i vestiboli che introducono a due ambienti rettangolari, interpretati come servizi igienici, e alle scale elicoidali. Della torre nord non rimane alcun elemento originale. In quella ovest troviamo il vestibolo di accesso ad una delle scale che attualmente conducono al terrazzo. Si può accedere al terrazzo utilizzando anche la scala elicoidale all’interno della torre est. Nei pressi della torre ovest si trova il Bagno della Regina. Vi si accede da una porta aperta nel paramento murario, scendendo poi da una scala intagliata nella viva roccia. Si narrava che fosse spazioso ed adorno di marmi, con sedili e vasche, nella realtà si tratta solo di un piccolo ambiente ed è una fonte di approvvigionamento idrico del castello.
-Notizie storiche: Nel 1288 alloggiò con la famiglia il re Pietro III d’Aragona. Il maniero è anche chiamato Castello di Maniace, da Giorgio Maniace, un generale bizantino che nel 1038 riconquista per breve tempo la città degli arabi e porta in dono due arieti bronzei ellenistici, che poi vengono posti all’entrata del Castello stesso. Per quasi tutto il XV secolo il Castello fu una prigione. Alla fine del XVI secolo il Castello di Maniace diventa un punto fondamentale della cinta muraria di Ortigia. Il 5 novembre 1704 un’esplosione avvenuta nella polveriera sconvolge l’edificio, blocchi di calcare vengono lanciati nel raggio di diversi chilometri. Negli anni successivi si appresta la ricostruzione, che lascia intatte le parti rovinate dall’esplosione, mentre si creano tamponature per la realizzazione di magazzini. In età napoleonica il Castello rivive con funzioni militari e viene munito di bocche da cannone. Dopo l’unificazione d’Italia esso rimane una struttura militare. Ad oggi, dopo un lungo restauro, il monumento è tornato al pubblico utilizzo. Negli ultimi anni infatti, oltre all’apertura al pubblico, è stato sede di spettacoli dell’Ortigia Festival. Nonostante le massicce manomissioni effettuate nel XVI secolo, la monumentale fortezza conserva la struttura esterna duecentesca. Si volle che il Castello di Maniace fosse il segno della presenza dell’imperatore e dell’immanenza del suo potere. Tutto il castello è cinto da fortificazioni e per accedervi bisogna attraversare un ponte di pietra, fatto costruire da Carlo V nel XVI secolo, insieme alla cinta difensiva dell’isola, quando Siracusa venne trasformata in una roccaforte. La fortificazione era raggiungibile solo attraverso un ponte levatoio, colmato nel Cinquecento, che lo isolava dalla terraferma rendendolo praticamente inespugnabile. Riprendeva modelli di cultura araba e faceva parte di un sistema di castelli e torri distribuiti lungo le coste a difesa dell’isola.
-Restauri: Alla fine dell’800 furono eseguiti i primi interventi sul manufatto consistenti nella pulitura di alcune parti murarie e nella demolizione di strutture pericolanti. Agli inizi del 1900 vennero realizzati i primi interventi sul portale. Ma la prima indagine strettamente archeologica del Castello fu eseguita da Paolo Orsi nel 1926, il quale mirava all’individuazione delle strutture greche e romane citate dalle fonti, nonché di quelle bizantine, arabe e normanne.

FONTE ARETUSA

Millenaria sorgente di acqua dolce, essa sgorga da una grotta a pochi metri dal mare. Questa mitica fonte fu cantata da molti poeti, come Virgilio, Pindaro, Ovidio, D’Annunzio e molti altri, affascinati dalla leggenda di Aretusa e dal luogo incantevole. Persino l’Ammiraglio Nelson subì il fascino di questa celebre fonte, infatti, dopo aver rifornito di acqua la sua flotta navale, vinse la battaglia di Abukir contro la flotta navale francese nelle acque del Mediterraneo al largo della costa egiziana.
L’esistenza della fonte è legata ad una leggenda: la ninfa Aretusa, ancella della dea della caccia Artemide, fu vista dal dio fluviale Alfeo (figlio di Oceano) che se ne innamorò e tentò di sedurla contro la sua volontà. Per salvarsi Aretusa fuggì in Sicilia, dove Artemide la tramutò in una fonte nei pressi del porto di Siracusa, ad Ortigia (sacra ad Artemide). Zeus, commosso, mutò Alfeo in un fiume della Grecia, vicino ad Olimpia, permettendogli così di raggiungere Aretusa scorrendo sottoterra. Il mito d’Aretusa ha identificato storicamente i cittadini di Siracusa che vengono chiamati “i siracusani”, ma che in nome della ninfa, sono anche chiamati “aretusei”.
In realtà la Fonte Aretusa è un piccolo specchio d’acqua dolce alimentato da una piccola sorgente sotterranea, che a sua volta è collegata ad un’altra sorgente situata presso l’inizio del Lungomare Alfeo, nota come “Occhio della Zillica”, che secondo i coloni greci che fondarono la città era lo sbocco del sopracitato Fiume Alfeo, che immetteva le sue acque nella Fonte Aretusa. La Fonte Aretusa è stata sempre murata, per cui l’acqua rimase dolce, ma oggigiorno sotto il Passeggio Aretusa vi è un piccolo cunicolo che la collega al mare, per cui l’acqua della fonte è divenuta salmastra, creando così un interessante ecosistema acquatico all’interno della parte vecchia della città, con il conseguente popolamento di varie specie animali, tra cui molti volatili acquatici come anatre, gallinelle d’acqua e cigni, infatti la fonte viene anche chiamata “La Fontana delle Papere”, ma anche pesci d’acqua salmastra. Per quanto riguarda le specie viventi vegetali è opportuno notare la consistente presenza del papiro, pianta piuttosto importante per l’economia siracusana, perchè il suo gambo serve per fare una carta piuttosto pregiata utilizzata per manufatti venduti come souvenir turistici, ma che in epoca greca veniva utilizzata per scrivere. Dopo un violento terremoto avvenuto nel 1169, l’acqua che alimentava la fonte cessò e scomparve per un lungo periodo, poi ricomparve, ma con meno portata e non più dolce, ma salmastra. Anche a seguito del terribile terremoto del 1693, l’acqua diventò rossastra e scarsa. Recentemente vi fu un abbassamento ulteriore della portata dell’acqua, che gli esperti hanno attribuito ad un periodo di siccità, tant’è che dopo abbondanti stagioni di pioggia la portata è aumentata. Le acque della Fonte Aretusa sorgono direttamente nell’isola d’Ortigia senza nessun tipo di canalizzazione con la terra ferma. Gli storici ci hanno tramandano notizie dove segnalano che un tempo le acque della fonte erano dolcissime e non erano minimamente mischiate con quelle salate. Pertanto si poteva supporre che effettivamente il flusso d’acqua proveniva veramente da sotto il livello del mare. Le acque dell’Aretusa, come quelle del Ciane e dell’Anapo, hanno origine dalla gran massa pluviale assorbita dai Monti Iblei. Attraversando terreni calcarei, spesso fragili e permeabili, le acque s’incanalano sotto terra e ricompaiono in superfice appena incontrano un terreno roccioso poco permeabile. Su una parete della fonte una lapide ricorda i versi di Virgilio, un gruppo bronzeo dello scultore Poidomani, raffigurante Alfeo ed Aretusa, è collocato in uno spazio antistante la vasca. Una nota splendida è l’albero piantato nel 1700, un ficus detto proprio “ficus aretuseò” per ricordare ancora la ninfa bella e inaccessibile, che Cimone ed Eveneto raffigurarono nelle loro monete.

PALAZZO VERMEXIO

-Architetto: edificato dall’architetto Giovanni Vermexio
-Denominazione: Municipio – Palazzo Vermexio detto anche Palazzo del Senato
-Luogo (città): Siracusa – Isola di Ortigia
-Epoca: 1629-1633
-Corrente artistica di riferimento: Barocco
-Descrizione della pianta: pianta quadrata. Questo palazzo può ritenersi l’espressione più alta del geometrismo che anima tutte le realizzazioni di Giovanni Vermexio. Esso era, in origine, un cubo perfetto.
Descrizione dell’esterno: La facciata si presenta di forma quadrata solcata da sei paraste che nell’ordine inferiore si presentano a bugnato e sorreggono una ricca trabeazione, mentre nell’ordine superiore si presentano lisce. Il portale d’ingresso è incassato dentro la parete centrale della facciata, ai lati della quale vi si trovano due finestre sormontate da timpani semicircolari. Presso il portale d’ingresso, sovrastato da un mascherone grottesco, sono presenti due lampioni in ferro battuto e un piedistallo, in cui è posta la targa con cui si commemora l’iscrizione di Siracusa e Pantalica nei “Luoghi Patrimonio dell’Umanità” da parte dell’Unesco. In esso Vermexio, volendosi quasi “firmare”, scolpì nell’angolo sinistro un minuscolo geco o lucertola, appellativo conferito all’architetto a causa della sua rara magrezza ed altezza. Il primo piano è impostato su schemi classici, le grandi finestre timpanate, le paraste bugnate in stile dorico, la solenne trabeazione decorata con triglifi e metope. Le paraste ioniche scandiscono il prospetto del secondo livello con finestre alternate a nicchie destinate a contenere le statue dei reali di Spagna mai completate da Gregorio Tedeschi, a cui era stata affidata la decorazione scultorea del palazzo, egli infatti riuscì a portare a termine solo la grande aquila a due teste coronate, simbolo dell’impero spagnolo, che è sovrastata dal balcone centrale. L’ordine superiore, in stile barocco, è caratterizzato da una balconata racchiusa da una ringhiera in ferro battuto, sopra cui si affacciano tre finestroni, di cui quello centrale sormontato da un timpano spezzato, che reca al centro lo stemma dei Borboni, un’aquila con due teste, sotto la quale è posta la targa in cui si onoravano i Borboni di Spagna. Le due finestre laterali sono sormontate da timpani spezzati più piccoli, sopra cui è posto lo stemma araldico della città di Siracusa. Nella parete laterale le due finestre sono sormontate da timpani semicircolari. Tra le finestre vi sono delle nicchie inarcate, che in origine dovevano contenere i busti dei re borbonici vissuti fino ad allora e dovevano essere scolpite sempre da Gregorio Tedeschi, ma l’improvvisa morte dell’artista rese lo impossibile. La trabeazione si presenta arricchita da decorazioni geometriche scolpite con la tecnica del bassorilievo, chiudendo quindi la costruzione con un’abbondantissima decorazione con festoni che corrono tra i capitelli ed un cornicione fortemente aggettante. Le paraste, nonostante creino forti giochi plastici, danno per il loro verticalismo quel senso di leggerezza non avvisato nel primo ordine.
-Descrizione dell’interno: All’interno dell’atrio è presente la “Carrozza del Senato” , uno splendido carro settecentesco utilizzato dalle maggiori autorità della città aretusea per muoversi all’interno di essa, realizzata su modello delle berline austriache. Questa carrozza viene fatta sfilare ogni anno in occasione dei festeggiamenti in onore di Santa Lucia. L’interno del Palazzo presenta moderne stanze restaurate, ma anche locali rimasti tali e quali come la Sala del Sindaco, il cortile interno e l’atrio d’ingresso, che presenta una volta a botte e due eleganti portali laterali. Qui possiamo ammirare la targa in pietra iblea, su cui è riportata per intero la dichiarazione dell’Unesco con cui Siracusa e la Necropoli di Pantalica sono state dichiarate ufficialmente “Patrimonio dell’Umanità”.
– Inserimento urbanistico e territoriale: Occupa l’angolo nord-est di piazza Duomo, in un’area di grande importanza fin dall’età greca, infatti parti delle fondazioni ricadono sui resti di un tempio ionico della fine del VI secolo a.c.
-Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale): I sotterranei del palazzo hanno restituito i resti di un primitivo tempio in stile ionico. Sono superstiti i frammenti di un enorme capitello e la parte inferiore di una colonna, che ha la caratteristica di essere rivestita fino a una certa altezza da una fascia non scanalata, nella quale dovevano trovare posto dei bassorilievi, come alcuni grandi templi dell’Asia Minore. Secondo alcune ricerche il tempio in realtà non fu mai portato a termine.
– Notizie storiche: Detto anche Palazzo del Senato, fu edificato tra il 1629 e il 1633 dall’architetto Giovanni Vermexio, che ricevette dal governo della città l’incarico di sostituire l’antica sede della Camera Reginale di Siracusa. L’edificio quindi divenne il palazzo del Governo della città. Oggi ospita gli uffici del Sindaco e del municipio. Originariamente esso era un cubo perfetto, diviso a metà altezza da un lungo balcone che separa i due ordini, l’inferiore rinascimentale e il superiore barocco. L’artista in questa sua opera riuscì a fondere la nobiltà delle passate civiltà con lo sfarzo spagnolo mediante i timpani dei balconi, le cornici spezzate e sporgenti, nicchie, capitelli ornati di conchiglie e maschere. Il Tempio Ionico, la cui dedica rimane tuttora ignota, fu probabilmente un Athenaion, è uno dei rari esempi di questo ordine conservato in Occidente e risale alla seconda metà del VI secolo a.C.
Questo è da mettere in relazione con la cacciata dei Gamoroi da Siracusa intorno al 500 a.C., nonché per la sconfitta inflitta a Siracusa da Ippocrate di Gela. Gelone, giunto così al potere, abbandonò il progetto del tempio ionico, preferendo avviare i lavori per la costruzione dell’Athenaion dorico.
Il Palazzo fu anche adibito a teatro nel 1740, ma venne rimosso nel 1880.
-Restauri: Intorno agli anni 60 fu accorpato un nuovo fabbricato per ampliare gli uffici del municipio, così facendo è stato stravolto l’originario progetto, demolendo l’antica chiesetta di S. Sebastiano e la sede della Biblioteca dell’Arcivescovado, fondata nel 1780 dal Vescovo Alagona.

MODICA

CHIESA DI S.PIETRO

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-Luogo (città):Modica, provincia di Ragusa.
-Epoca: 1697: (inizio costruzione)-1780 (completamento)
-Corrente artistica di riferimento: Barocco siciliano, Neoclassicismo.

Descrizione dell’esterno:

La facciata è una superficie piana resa elegante dalle lesene diamantate del primo ordine e a losanga del secondo ordine, dalla minuta decorazione del finestrone centrale, dalle volute di raccordo a motivi floreali, dalle statue sistemate sul primo ordine e nella cuspide. Una bella scalinata con le statue dei dodici Apostoli, chiamati dal popolo Santoni, conduce alla sobria ma maestosa facciata suddivisa in due ordini, e abbellita da quattro statue, raffiguranti San Cataldo, Santa Rosalia, San Pietro e la Madonna, che arricchiscono il secondo ordine, che è infine sormontato all’apice della facciata dalla scultura, in altorilievo, di un Gesù Cristo in trionfo.

Descrizione dell’interno:

Il valore estetico più rilevante dell’interno è dato dall’ampio respiro spaziale della navata centrale con volta a botte rischiarata da grandi finestre laterali e da delicati stucchi ottocenteschi; l’abside è resa monumentale dalle colonne binate con una impaginazione ancora seicentesca nel disegno, dagli altari incorniciati da colonne tortili e da tutte le opere di scultura, pittura, oreficeria conservate nella chiesa.

Descrizione della pianta:

La chiesa è divisa in tre navate da 14 colonne con capitello corinzio. le laterali sono occupate da cappellette.

Decorazioni pittoriche e scultoree

A partire dal pavimento, del 1864, con intarsi di marmo bianco, marmi policromi e pece nera, per finire con la volta, ricca di magnifichi affreschi, raffiguranti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, iniziati nel 1760 circa dal pittore locale Gian Battista Ragazzi con la collaborazione del figlio Stefano, e portati a termine intorno al 1780, probabilmente solo dal figlio.

-Madonna di Trapani

Posta nella cappella di destra, un’opera in marmo riferibile al sec. XVI: una madre che offre un frutto al Bambino che tiene in braccio, lo sguardo rivolto in avanti, il collo leggermente allungato, la bocca socchiusa e i capelli sciolti sulla veste a fiori. Un riferimento particolare va fatto all’oreficeria. L’urna reliquiaria in argento reca la data 1643. Anche se, per il momento, mancano le fonti, la data può essere accettata, tenendo conto dell’impianto “architettonico” e dell’iconografia dei dodici apostoli che sono rappresentati in altorilievo sui quattro lati in nicchie incorniciate da lesene con cariatidi.

-L’immacolata

Si trova nella nicchia sull’altare maggiore. è una statua policroma. La statua firmata e datata è resa in forme dinamiche dalle ricche vesti. Il volto è incorniciato da un fazzoletto che lascia liberi i lunghi capelli di Maria. Tra le vesti compare in basso la testa del serpente. Ai lati dell’Immacolata all’interno di due nicchie, le statue di San Pietro e San Paolo. Tutte le sculture sono opera di Pietro Padula un artista di indubbia qualità, napoletano, che le eseguì tra il 1773 e il 1775. Intorno agli anno ’80 del Settecento il pittore Giovan Battista Ragazzi affrescherà i riquadri della volta con scene e figure del Vecchio Testamento. Due interessanti tele secentesche anonime sono presenti all’interno della cappella Mazzara.

-Cappella Mazzara
La prima cappella della navata sinistra dedicata alla nobildonna che aveva lasciato per testamento parte del proprio patrimonio e delle rendite alla Chiesa di San Pietro. All’interno della cappella Mazzara e in alto sulla parete di fondo dell’abside è presente lo stemma gentilizio della Famiglia Mazzara composto da una mezzaluna e da una campana, all’interno della chiesa è inoltre riprodotto quasi ossessivamente il simbolo della chiesa di Roma con la tiara pontificia e le chiavi di San Pietro per ribadire l’antichità di questa architettura e soprattutto il legame con uno dei primi discepoli di San Pietro, il Santo Vescovo Marziano. Due interessanti tele secentesche della cappella Mazzara.

Inserimento urbanistico e territoriale:

Si pone come polo visivo lungo l’itinerario della via principale, contornata da palazzi e conventi, a ridosso del Castello dei Conti di Modica, che domina sull’altura. Per l’attuale struttura architettonica il terremoto del 1693 si pone come momento iniziale, così come lo è per buona parte dell’architettura tardobarocca del Val di Noto.

Notizie storiche e restauri: 

Furicostruita sulle stesse fondamenta della chiesa del Seicento. Dell’edificio seicentesco rimane, all’interno, la Cappella dell’Immacolata, attualmente sacrestia, dove è ancora leggibile la data 1620. La cappella è un vano quadrangolare con un’interessante copertura che rimanda a modelli costruttivi rinascimentali, analoghi a quelli della volta della cappella di San Mauro all’interno della Chiesa di Santa Maria di Betlem. L’origine, molto probabilmente, risale all’epoca di San Marziano, discepolo di San Pietro e primo vescovo di Siracusa. Si racconta che nella chiesa si conserva un blocco di calcare duro in forma di sedia vescovile chiamato Cattedra di San Marziano e che tale cattedra fu fatta seppellire dinanzi al fonte battesimale della chiesa. Il legame con San Marziano è confermato da un documento che si riferisce a un altare dedicato al Santo Vescovo nel 1480. La prima notizia relativa alla chiesa risale al 1308. I lavori di costruzione e decorazioni continueranno fino alla fine dell’Ottocento e oltre se si considera l’ultimo intervento della chiesa: la costruzione dell’organo, sistemato sopra il portale d’ingresso.

CHIESA DI S.GIORGIO

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-Architetto: Alessandro Cappellani Judica
-Luogo: Modica, Provincia di Ragusa, Sicilia.
-Epoca:  verosimilmente la sua prima edificazione sarebbe stata voluta direttamente dal Conte Ruggero d’Altavilla, a partire dalla definitiva cacciata degli Arabi dalla Sicilia, intorno al 1090.
San Giorgio fu eretta a Collegiata con bolla di Urbano VIII del 6 novembre 1630.
-Corrente artistica di riferimento: Barocco

Descrizione della pianta:

Ha pianta basilicale a croce latina divisa da cinque navate e tre absidi dopo il transetto.

Descrizione dell’esterno:

La facciata attuale – dalle sorprendenti analogie con la coeva Katholische Hofkirche di Dresda – fu realizzata modificando, forse anche con parziali demolizioni, quella secentesca preesistente, di cui non abbiamo documenti o disegni, ma che aveva resistito alla forza del terremoto.                                                                                                                                                                                   La cupola si innalza per 36 metri. Una scenografica scalinata di 164 gradini, disegnata per la parte sopra strada dal gesuita Francesco Di Marco nel 1814 e completata nel 1818, conduce ai cinque portali del tempio, che fanno da preludio alle cinque navate interne della chiesa.                                                                                                                                                                                     La parte della scalinata sotto il Corso San Giorgio fu progettata nel 1874 dall’architetto Alessandro Cappellani Judica e completata nel 1880.                                                                                       La prospettiva frontale di tutto l’insieme è arricchita da un giardino pensile e su più livelli, detto Orto del Piombo, costeggiato dalla scalinata monumentale, e compone una scenografia che ricorda Trinità dei Monti in Roma.

Descrizione dell’interno:

L’interno della chiesa è a cinque navate, con 22 colonne sormontate da capitelli corinzi. Sul pavimento dinanzi l’altare maggiore, nel 1895 il matematico Armando Perini disegnò una meridiana solare; il raggio di sole, che entra dal foro dello
gnomone posto in alto sulla destra, a mezzogiorno, segna sulla meridiana il mezzogiorno locale. 
All’estremo sinistro della meridiana, una lapide del pavimento contiene l’indicazione delle coordinate geografiche della chiesa, e dunque della stessa città di Modica.

Decorazioni pittoriche e sculture:

Fra le navate si possono ammirare: un grandioso organo con 4 tastiere, 80 registri e 3000 canne, perfettamente funzionante, costruito tra il 1885 e il 1888 dal bergamasco Casimiro Allieri;

-L’Assunta:

Un dipinto di scuola toscana del tardo-manierista fiorentino Filippo Paladini (1610);

– La Natività:

Una deliziosa pittura naif su legno di Carlo Cane, del Seicento;

-Il Martirio:

La tela secentesca(1671) di Sant’Ippolito firmata dal poco noto Cicalesius; una sta tua marmorea di scuola gaginiana;

-la Madonna della Neve:

Della bottega palermitana dei carraresi Mancini e Berrettaro del 1511.

-l’Arca Santa:

Poggia sull’altare in fondo ad una delle due navate di destra, chiamata Santa Cassa, opera in argento intarsiato costruita a Venezia nel XIV secolo, e donata alla Chiesa dai conti – mecenati della dinastia dei Chiaramonte.

Il polittico occupa tutta la parete di fondo dell’abside: attribuito, inizialmente, all’Alibrandi, un pittore dei primi del Cinquecento, fu, in seguito a un restauro dell’opera, attribuito a Bernardino Niger, un pittore forse di origine greca. Il più grande polittico di tradizione medievale-rinascimentale presente in Sicilia è composto da nove riquadri più il lunettone, sulla sommità, dove è rappresentato Dio Padre. I nove riquadri sono disposti in tre ordini. Nel primo ordine dal basso sono rappresentati San Giorgio e San Martino, i due santi cavalieri e guerrieri, che hanno una devozione particolarmente viva in tutta la Contea di Modica.

Inserimento urbanistico e territotiale:

La singolarità dell’opera, oltre alla sua intrinseca bellezza, è data dalla sua collocazione urbanistica, al centro di una città costruita a ripiani irregolari collegati da scalinate e salite tortuose con ampi spazi che, ancora nel Settecento, dovevano essere destinati a giardini e orti terrazzati. La fisionomia attuale della chiesa è il risultato di più secoli di trasformazioni, integrazioni e completamenti con gli interventi più consistenti che si situano tra il XVII e il XIX secolo.

Notizie storiche:

Chiesa dedicata ai Santi Ippolito e Giorgio. La prima fonte che parla dell’esistenza della chiesa è una bolla pontificia dal 1150 di papa Eugenio III, con la quale la chiesa veniva posta sotto la tutela del Monastero di Mileto in Calabria. Secondo la tradizione la chiesa fu fondata dal Conte Ruggero e, in ricordo di tale avvenimento, all’interno, sopra il portale principale, è esposta l’armatura del Conte Ruggero d’Altavilla, il condottiero dei Normanni e il leggendario fondatore di San Giorgio.

Restauri:

Mai furono sospese le attività liturgiche nel Duomo, salvo qualche mese dopo il tremendo terremoto del 1693 che ne aveva fatto crollare i tetti, ripristinati i quali già nel 1696, alla visita pastorale del vescovo di Siracusa, la chiesa era nel pieno esercizio delle sue funzioni. Nel 1643 il cedimento di un pilastro del transetto e la preoccupazione del crollo degli archi vicini porta a un radicale intervento nella chiesa. Dopo aver consultato vari architetti ed “esperti di fabbrica” provenienti da varie città del Regno, fu deciso di smantellare il precedente edificio e di dare l’incarico per un nuovo “modello” e “pianta”.

 

PIAZZA DEL MUNICIPIO

Vero e proprio cardine della città, questa piazza, posta all’incrocio tra c.so Umberto I e v. Marchesa Tedeschi, è sormontata dalla scoscesa rupe del castello, su cui spicca una settecentesca torre con orologio.
Sulla destra della piazza c’è l’ex convento dei Domenicani oggi Municipio. Vicino si trova la Chiesa di S. Domenico (XIV sec.), distrutta dal terremoto del 1613 e ricostruita nel 1678, ma risparmiata dal sisma del 1693. L’interno, ad una navata unica con volata a botte, è ornato da pregevoli stucchi settecenteschi.

 

C.SO S.UMBERTO I

Corso Umberto I è fiancheggiato da una serie di episodi architettonici che testimoniano la crescente importanza che l’asse ha avuto nel corso dei secoli.
Si evidenziano partendo da piazza del Municipio:
l’ex Monastero delle Benedettine, dal 1866 sede del tribunale e dal 2005 Museo Civico Archeologico “F.L. Belgiorno”; l’esposizione, organizzata secondo moderni criteri museografici, ospita reperti rinvenuti sul suolo modicano databili dal Paleolitico al Medioevo (notevole l’Eracle di Cafeo, una statuetta bronzea risalente al III sec. a.C.);

La Chiesa di S. Pietro di stile barocco, ricostruita dopo il terremoto del 1693 con una scenografica scalinata arricchita dalle statue dei dodici Apostoli; l’interno è a tre navate divise da 14 colonne corinzie;

Il Palazzo Tedeschi del XVIII sec. con balconi retti da belle mensole figurate;

La seicentesca Chiesa di S. Maria del Soccorso, dalla sobria facciata convessa e annessa al coevo ex Convento dei Gesuiti;

L’ottocentesco Teatro Garibaldi;

Il Palazzo Manenti del XVIII sec. con belle ornamentazioni barocche nei balconi del piano superiore, sostenuti da mensole figurate.

 

CHIESA DEL CARMINE

La chiesa di Santa Maria dell’Annunziata del Carmelo, detta “del Carmine” (fine XIII – XIV sec.), è stata fondata dai Padri carmelitani; è uno dei pochi monumenti che resistette alla violenza del terremoto del 1693. E infatti il prospetto, che aveva in parte superato anche i terremoti del 1542 e 1613, è arricchito da un bel portale risalente alla fine del Trecento, già dichiarato Monumento Nazionale all’inizio del XX secolo.
Il portale è ad arco a sesto acuto, leggermente strombato, definito da fasci di colonne laterali e decorato con capitelli con motivi floreali.
Il portale è sormontato da un rosone francescano con dodici raggi, uno dei più integri e preziosi dell’intera isola, il tutto in stile tardo-gotico chiaramontano.                                                             Sulla sinistra saldato alla facciata si apre l’originario campanile a tre ordini, interrotti da fasce trasversali con le rituali feritoie.
Le parti superiori della facciata e del campanile sono comunque sovrastrutture barocche settecentesche post-terremoto.
L’interno è, attualmente, ad una navata: la volta interna è a crociera ogivale con costoloni e con un fregio scolpito sulla chiave di volta; sulle pareti sono visibili i resti di un affresco: La Trinità, il volto di Maria con il Bambino, i resti di un panorama di città, su un’altra parete sono visibili i calzari di alcuni personaggi che il tempo non ha risparmiato.                                                                               A lato dell’altare, si conserva una cappella tardo-gotica, anch’essa databile alla fine del XIII secolo, riportata alla luce e restaurata di recente. Presenta essa tracce di affreschi murali, ed il suo pavimento ricopre una cripta funeraria, visibile da una botola, mentre una parete di tamponamento del Settecento ha tenuto nascosto per tre secoli l’arco d’ingresso alla cappella, trapuntato come un merletto.
Tamponato da un muro, un altro arco di accesso ad una delle antiche cappelle laterali è visibile sul muro di destra non appena si entra in chiesa.
La Chiesa del Carmine custodisce al suo interno opere di alto valore artistico.
Sulla destra, all’interno dell’atrio, sulla destra, è esposta una Madonna del latte (secolo XIII): una statua in cartapesta, originale come tema e da considerare una rarità anche per la datazione, essendo coeva all’edificazione della chiesa.
L’altro capolavoro degno di nota è il gruppo scultoreo dell’Annunciazione. Il gruppo, in marmo, vede l’Angelo in ginocchio davanti a Maria. Li separa un leggio coperto da un drappo e con, sopra, un libro aperto. La Vergine, giovanissima, ha i tratti delicati e pensosi e indossa un manto con ampie pieghe. Sul piedistallo della Vergine sono scolpite tre teste di uomini di mezza età con barbe e lunghi capelli. L’impaginazione è rinascimentale ed è possibile collocarla cronologicamente nella prima metà del Cinquecento. L’autore dovrebbe essere Antonello Gagini. Il gruppo scultoreo fu consegnato all’ordine Carmelitano nel 1532.                                                                                                                                                                                                                                              La Pala di Sant’Alberto (il santo carmelitano a cui era intitolata la Provincia della Sicilia Orientale, mentre la Sicilia Occidentale era intitolata a Sant’Angelo) è uno dei dipinti più importanti tra quelli presenti a Modica. Si tratta di un dipinto su tavola raffigurante il Santo con un libro e un giglio in una mano mentre nell’altra tiene un crocifisso. La pala che, molto probabilmente, faceva parte di un polittico smembrato e disperso, risale ai primi del Cinquecento e fu realizzata sicuramente da un Maestro. Alcuni critici d’arte hanno avanzato l’ipotesi che l’autore potrebbe essere il pittore lombardo Cesare Da Sesto, allievo di Leonardo da Vinci, che sostando per un periodo a Messina, avrebbe realizzato quest’opera nel suo percorso siciliano (1513-1517)
Girando lo sguardo all’indietro, nella cantoria collocata sopra l’ingresso della chiesa, si ammira un delizioso piccolo organo monumentale in legno, il più antico fra quelli ancora funzionanti a Modica, datato 1774.
Risale al 2006, invece, durante lavori edili di sgombero, il ritrovamento da parte di un privato, proprietario di un locale attiguo alla chiesa sul lato di via Pellico, di un altro portale gotico di fine Duecento, che costituiva l’ingresso dalla navata ad una delle cappelle laterali, poi andata svenduta, quindi adattata a civile abitazione, dopo i danni causati dal terremoto del 1693. I lavori di recupero – supervisionati dalla Soprintendenza alle Belle Arti – avvisata della scoperta dallo stesso proprietario – hanno portato anche al rinvenimento di una cripta sotterranea, colma di ossa, probabili reliquie dei monaci carmelitani.                                                                                                                                                                                                                                          

Convento del Carmine

L’edificazione avvenne a seguire la Chiesa omonima, fra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, per ospitare i frati Carmelitani giunti in Sicilia già da qualche decennio. Il convento era dotato di 23 celle, ed è stato sottoposto a varie ristrutturazioni ed ampliamenti da sovra elevazione nel corso dei secoli, soprattutto dopo i danni del terremoto del 1693, e successivamente, quando fu requisito dal Regno d’Italia nel 1861 per farne sede della Caserma dei Carabinieri. È in questa occasione che vengono a scomparire gli orti antistanti il Convento, per essere trasformati nella pubblica piazza del Carmine, intitolata nel secolo successivo a Giacomo Matteotti. Il prospetto è stato interamente rifatto, in stile neo-rinascimentale-liberty. Trasferitasi l’Arma dei Carabinieri in altra sede intorno al 2000, sono stati pensati, progettati, ed in questo inizio d’anno 2012 quasi conclusi, degli importanti lavori di restauro e consolidamento, che hanno portato a fortuiti rinvenimenti delle strutture portanti medievali, sono state scrostate le mura, e riportati alla luce i pavimenti in acciottolato del XIII-XIV secolo, gli archi ogivali gotici che immettono da un ambiente conventuale ad un altro, delle finestrelle in stile svevo chiara montano del XIII secolo. Il pavimento di un ambiente, confinante con l’attigua ex Chiesa di San Giovanni Battista dei Cavalieri Gerosolimitani, sembra, per il suo disegno geometrico, con quasi certezza appartenere ad una vecchia strada laterale al Convento stesso inglobata successivamente all’interno della struttura conventuale.

Concento dei Mercedari

Il Convento dei Mercedari del sec. XVIII è annesso al Santuario della Madonna delle Grazie, fu un ex convento dei Padri Mercedari e fu adibito a lazzaretto durante la peste del 1709: ha ospitato la Biblioteca Comunale ed il Museo Civico. Oggi è ancora in fase di restauro; presto l’edificio avrà sede il museo etnografico “Serafino Amabile Guastella”.

 

CHIESA DI S.MARIA DI BETLEM

-Epoca: XIV secolo
-Corrente artistica di riferimento: gotico chiaramontano

Descrizione della pianta:

impianto a 3 navate

Descrizione dell’esterno:

La facciata, a due ordini, scanditi da una cornice marcapiano. è il risultato di due fasi costruttive, il primo ordine è da collocare tra il secondo Cinquecento e il primo Seicento, mentre il secondo ordine fu realizzato nell’Ottocento. Lungo il prospetto laterale sinistro si trova una lunetta in calcare, la Lunetta del Berlon (sec. XV-XVI), pregevole bassorilievo di ignoti artisti locali raffigurante una Adorazione dei Pastori, probabile arcosolio del portale della Chiesa di S. Maria di Berlon. Sono visibili tracce dei colori con i quali, originariamente, doveva essere dipinto il bassorilievo. Nella parte sottostante è presente una scritta in vernacolare in caratteri gotici che fa riferimento a una chiesa di Berlon. Forse storpiatura di Betlem. La lunetta è testimonianza di una produzione locale con caratteri popolareggianti di estrema semplicità.

Descrizione dell’interno e decorazioni pittoriche e scultoree:

All’interno una delle testimonianza artistiche tra tardogotico e Rinascimento più significative dell’intero territorio è la Cappella Cabrera, che si trova in fondo alla navata di destra. L’ambiente è di forma quadrata, il basamento della cupola è di forma ottagonale, definito da pennacchi ai quattro angoli, la cupola termina con un lucernario. L’ampio e alto portale, che occupa tutta la parete d’ingresso alla cappella, è a sesto acuto, ma sia il portale che l’intera cappella non possono essere riferiti alla cultura tardogotica tout-court. La cappella, che in passato veniva definita arabo-normanna, deve, alla luce dei più recenti studi, essere annoverata tra le testimonianze artistiche del primo Cinquecento con integrazioni e interazione di elementi classici, manieristici e gotici. Nel ricco portale si sviluppano cinque tra semicolonne e pilastrini ed eleganti snelle colonne con motivi a zig-zag e floreali. I capitelli sono decorati con maschere e con motivi a grottesche cinquecentesche. Scudi e simboli sacri sono scolpiti nelle chiavi d’arco: partendo dal basso si trovano una testa di leone, una lira, un trofeo d’armi, uno scudo con una stella a sette punte, un putto alato, un agnello dentro una conchiglia sormontato da una corona. La Chiesa di santa Maria di Betlem possiede uno dei più bei presepi dell’intera provicia di Ragusa. Si tratta di un presepe monumentale con statue in terracotta a grandezza naturale, realizzato nel 1882 da Bongiovanni Vaccaro, un maestro di Caltagirone.

Inserimento urbanistico e territoriale:

La chiesa di Santa Maria di Betlem è una delle tre antiche collegiate (dal 1645) della città e la sua presenza nel sito risale al XIV secolo.

Notizie storiche:

La chiesa fu costruita al posto o per l’integrazione di quattro piccole chiese (San Bartolomeo, Sant’Antonio, Santa Maria di Berlon, San Mauro) e l’aspetto attuale si presenta come il risultato di interventi che vanno dal Cinquecento all’Ottocento. La Cappella è intitolata ai Cabrera più per tradizione che per una reale committenza della famiglia, anche se, in realtà, si può affermare che la breve presenza siciliana di Federico Henriquez e Anna Cabrera coincide con la prima ondata di classicismo rinascimentale che aveva investito l’isola.

 

Letteratura – Camilleri

LA GITA A TINDARI

Romanzo pubblicato nel 2000 dalla casa editrice Sellerio.
Dall’opera è stato tratto uno sceneggiato televisivo trasmesso da Rai Uno nel 2001 con l’attore Luca Zingaretti nella parte del commissario Montalbano.

Struttura: Il commissario Montalbano, investigatore di polizia palermitano, avvia le indagini riguardanti il caso dell’assassinio di un ragazzo, Nenè Sanfilippo, e contemporaneamente della misteriosa scomparsa di una coppia di anziani coniugi, i signori Griffo. L’unica connessione tra i due casi consiste nella residenza delle persone, che abitavano nello stesso palazzo. Questi due eventi misteriosi rompono l’equilibrio iniziale.
I coniugi Griffo erano stati visti l’ultima volta in pubblico durante una loro gita a Tindari, in seguito alla quale non si erano più avute notizie di loro.
Montalbano prosegue con le sue indagini, nel corso delle quali vengono ritrovati i corpi dei due pensionati che, dopo essere stati assassinati, erano stati rinchiusi in un cascinale, al quale era poi stato appiccato il fuoco. In questo modo, se tutto fosse andato secondo i piani degli assassini, dei due corpi non sarebbe rimasta traccia e nessuno avrebbe mai saputo niente. L’intervento tempestivo dei vigili del fuoco però ha invece permesso il recupero e l’identificazione dei cadaveri.
Successivamente il vecchio boss mafioso don Balduccio Sinagra, uno dei più forti boss locali, contatta Montalbano e fa in modo che egli arrivi nel luogo dove il boss ha fatto assassinare il nipote Japichinu Sinagra. Così facendo, il vecchio boss ha la speranza che il commissario attribuisca ingenuamente la responsabilità del delitto ai nemici di Sinagra. Montalbano intuisce però che si tratta di una trappola e riesce a non caderci e a non rimanere coinvolto.
Unendo gli indizi raccolti a dei a files informatici e cassette modificate appartenuti a Nenè Sanfilippo, il commissario Montalbano riesce poi finalmente a ricostruire la vicenda per intero e a creare le premesse per la ricomposizione dell’equilibrio. Proprio a Vigàta era situata una delle basi di una nuova mafia internazionale dedita al contrabbando di organi. Questa organizzazione, ramificata in tutto il mondo, operava per lo più tramite Internet. La base di Vigàta era in una casupola di piccole dimensioni di proprietà dei signori Griffo, che affittavano la casa all’organizzazione mafiosa. Sanfilippo, esperto di computer, lavorava per l’organizzazione, così come ne era entrato a far parte anche Japichinu Sinagra, diventando un rivale e un pericolo per il nonno, che lo in seguito lo fa eliminare.
Il dottor Ingrò era a suo modo coinvolto, in quanto costretto dalla mafia a operare trapianti illegali per ripagare i suoi debiti con l’organizzazione.
Un elemento sospetto si aggiunge poi alle indagini del commissario: Vania Ingrò, moglie del chirurgo Ingrò e amante di Nenè Safilippo, improvvisamente lascia la lussuosa casa del marito per tornare nel suo povero paese d’origine in Romania.
La moglie Vania era infatti all’oscuro di tutta la faccenda e nel momento in cui viene alla luce la sua relazione con Sanfilippo la donna costituisce una bomba ad orologeria per la mafia. Diventa quindi necessario smantellare la base di Vigàta e far sparire i coinvolti. Vengono dunque eliminati i Griffo e Sanfilippo, mentre Vania viene allontanata per non far ricadere i sospetti sul chirurgo e su una sua eventuale vendetta contro la moglie e il suo amante.
Montalbano riesce quindi ad ingannare il chirurgo e a farlo confessare davanti al questore. Temendo la possibilità di eventuali interventi della mafia per nascondere la confessione o ritorsioni contro lo stesso Montalbano, il commissario ha poi cura di tenere il suo nome fuori dal caso e di far pubblicare la notizia della confessione da un suo amico giornalista.
Il tempo: il romanzo è ambientato alla fine degli anni Novanta; la vicenda è emozionante perché tutto succede nell’arco di qualche settimana.
I luoghi: Montalbano lavora a Vigàta, un paesino siciliano non molto lontano da Montereale e da Marinella, dove egli abita, ma un paese piuttosto distante dalle grandi città di Trapani e Messina e dal santuario di Tindari.
I personaggi
Protagonista: Salvo Montalbano è il commissario di Vigata, dotato di lucida capacità di giudizio su fatti e persone. Egli è un uomo sulla cinquantina, onesto, non corrotto dai politici locali e sempre pronto ad aiutare i deboli. Montalbano è un anticonformista che non ama le regole, non viene mai descritto fisicamente. Uomo solitario e indipendente, ama il nuoto e il mare. Con i suoi collaboratori è posato, a volte nervoso e scorbutico, altre volte è malinconico. Tuttavia si riscontra in lui una certa ritrosità nei confronti della tecnologia e della modernità.
Antagonisti: la nuova mafia internazionale;
Oppositori: il dottor Ingrò un famoso chirurgo con la mania della collezione dei quadri molto costosi; a suo modo coinvolto in questa storia, in quanto costretto dalla mafia a operare trapianti illegali per ripagare i suoi debiti con l’organizzazione; Don Balduccio Sinagra è il vecchio boss della mafia palermitana, “uno scheletro vestito”, che non ha perduto il carisma benché la nuova mafia faccia oscillare la sua autorità.
Destinatari (cioè coloro su cui sono concentrate le indagini del protagonista): Nenè Sanfilippo è  il giovane assassinato, amante dei computer e donne, ragazzo sulla ventina con codino e orecchino; i coniugi Griffo, l’anziana coppia di pensionati uccisi; Japichinu Sinagra, il giovane che faceva parte dell’organizzazione del commercio di organi e che incominciava a dar fastidio al nonno, che lo farà assassinare.
Aiutanti: Livia è la fidanzata di Montalbano, ma abita a Boccadasse in Liguria. E’ fedele e paziente e non viene svelato alcun particolare fisico. Si sente spesso troppo trascurata rispetto alle indagini, che l’amato affronta con sveltezza.
Catarella lavora al centralino del commissariato. E’ una persona piuttosto ignorante e confusa, ma dotata di un arguto senso pratico.
Fazio, un uomo fedele, ma talvolta lento e intrappolato nella sua mente logica e rigorosa. Fa parte della squadra di Montalbano, insieme a Gallo o “Galluzzo” e Mimì.
Mimì Augello, il vice di Montalbano, dai risvolti, complessi e delicati casi, ma indispensabile confidente per Montalbano e punto fermo della squadra. S’innamora in questa storia di Beba.
Nicolò Zito, l’amico giornalista di Montalbano, che riceve sempre da lui gli scoop, a condizione che dica quello che lui vuole.
Comparse: Beatrice chiamata anche Beba, una bella ragazza alta, bionda e snella. E’ la rappresentante di casalinghi e guida che era sul pullman della gita a Tindari. S’innamora di Mimì.
Il Questore Bonetti-Alderighi, sebbene usi un tono rigido nei dialoghi, non ha mai intimorito Montalbano.
L’avvocato Guttadauro, legale prediletto dai mafiosi.
Ingrid Sjostrom è l’amica svedese di Montalbano; è una donna molto bella, considerata di facili costumi in quanto straniera, leale e sincera.
Vanja Titulescu, trentunenne rumena sposata con il ricco chirurgo Ingrò, tradisce il marito mediante la relazione pericolosa con Nenè Sanfilippo.
Linguaggio: Lo stile e le tecniche narrative di Camilleri sono uniche, non manca mai di inserire nella narrazione molti termini in dialetto siciliano, rendendo così il racconto più confacente all’ambientazione in cui si svolge la vicenda.
Narratore: Il narratore è esterno, ma il punto di vista è interno alla narrazione.
Citazione (utilizzabile per il video): La collina Ciuccàfa si distingueva per due particolarità. La prima consisteva nell’appresentarsi completamente calva e priva di un pur minimo filo d’erba verde. Mai su quella terra un àrbolo ce l’aveva fatta a crescere e non era arrinisciùto a pigliarci manco uno stocco di saggina, una troffa di chiapparina, una macchia di spinasanta. C’era sì un ciuffo d’àrboli che circondava la casa, ma erano stati fatti trapiantare già adulti da don Balduccio per avere tanticchia di refrigerio. E per scansare che siccassero e morissero, si era fatto venire camionate e camionate di terra speciale. La seconda particolarità era che, cizzion fatta della casa dei Sinagra, non si vedevano altre abitazioni, casupole o ville che fossero, da qualsiasi lata si taliassero i fianchi della collina. Si notava solo la serpeggiante acchianata della larga strata asfaltata, lunga un tre chilometri, che don Balduccio si era fatta fare, come diceva, a spisi so’. Non c’erano altre abitazioni non perché i Sinagra si erano accattati tutta quanta la collina, ma per altra, e più sottile, ragione.
Contestualizzazione: il tema centrale è la lotta alla criminalità; in questo libro, come in altri libri di Camilleri, si affronta il problema della mafia ovvero l’eterna “questione meridionale”.

 

 

MONTALBANO SI RIFIUTA

Racconto tratto dal libro “Racconti di Montalbano” (storie scelte da Camilleri)

Struttura: Inizialmente viene presentata la situazione al tempo presente, ma subito si torna al passato con un flashback; il commissario Salvo Montalbano nel pomeriggio sta eseguendo un interrogatorio, nella tarda serata va a cena e, seppur interrotto ancor prima di gustare l’antipasto, riesce a tornare alla trattoria per finire il pasto. Si sta dirigendo verso casa in auto quando di sfuggita nota un’altra auto con soggetti sospetti che pare stiano violentando una donna, a prima vista sembra ignorarli, ma subito dopo torna sulle loro tracce, che lo portano fino ad una casa su una collina. Qui si interrompe la situazione di pace che caratterizzava la giornata lavorativa del commissario. Di nascosto Montalbano riesce a seguire i due uomini fin dentro alla casa, dove trova una scena di grande orrore: il corpo morto e sbrindellato della donna. Con abili parole Camilleri riesce a dare grande suspance a queste scene: Salvo, scendendo le scale, ode lo scambio di opinioni tra i due uomini che stanno esplicitamente mangiando delle parti del corpo della donna, nauseato esce dalla casa e dopo aver cosparso l’ingresso di benzina decide di abbandonare il piano e chiama lo scrittore del racconto. Pare che ritorni una situazione di relativa pace, almeno per il lettore, quando Montalbano rimprovera al telefono lo scrittore e decide lui stesso di mettere fine al racconto, riattaccando il telefono.

Fabula e intreccio: La fabula inizia con la presentazione della scena, di sera, ma già nella prima pagina c’è un flashback con il quale racconta i fatti avvenuti nel pomeriggio. Da lì in poi i fatti procedono in ordine cronologico.

Sequenze:
Sequenze narrative alternate a brevissime sequenze dialogiche, talvolta composte da una sola battuta.
Sequenza narrativa: presentazione della scena, il commissario è in auto.
Flashback
Sequenza narrativa: il commissario sta facendo un interrogatorio e si prende una pausa, lasciando il lavoro a Fazio, un collega.
Sequenza dialogica: brevissimo scambio di battute tra Montalbano e Fazio.
Sequenza narrativa: il commissario torna al suo interrogatorio, quando arriva Augello; Montalbano si fa sostituire e va a cenare.
Sequenza dialogica: Gallo interrompe la cena e richiama Montalbano in commissariato per comunicargli delle novità.
Sequenza dialogica: dialogo Augello – Montalbano.
Sequenza narrativa: il commissario torna alla sua cena e terminatala si dirige verso casa a bordo della sua auto.
Sequenza narrativa: Montalbano dall’auto nota una scena di violenza, senza farsi notare segue i delinquenti in macchina fino ad una casa isolata.
Sequenza narrativa: il commissario di soppiatto ispeziona la casa.
Sequenza narrativa: il commissario trova una ragazza morta.
Sequenza dialogica: i due assassini dal piano di sotto si scambiano opinioni sul cibo che stanno mangiando, è evidente che si tratta di parti di corpo della ragazza.
Sequenza narrativa: Montalbano esce dalla casa, dalla sua auto prende una scheda telefonica e, raggiunta una cabina, chiama.
Sequenza dialogica: Montalbano chiama colui che sta scrivendo la storia proprio in quel momento, esprime il suo disappunto per come si sta evolvendo la vicenda e chiude il racconto riattaccando il telefono.
Il racconto è costituito prevalentemente da sequenze narrative, ma ci sono anche brevi sequenze dialogiche.
Inesistenti quelle riflessive, appena accennate quelle delle descrizioni, tuttavia non abbastanza approfondite da determinare una sequenza.

Il narratore
E’ un narratore esterno, in terza persona ed è onnisciente poiché racconta i fatti attraverso un flashback. Il racconto è molto oggettivo, le scene più crude sono descritte con grande freddezza e distacco. I fatti sono raccontati al passato.

Il tempo: Non vi sono riferimenti temporali riguardo agli anni, probabilmente si tratta della epoca contemporanea di Camilleri (‘900).
Il racconto si conclude in una giornata, vi sono riferimenti a orari precisi (otto di mattina, cinque di pomeriggio, dieci di sera, mezzanotte spaccata..).

I luoghi: La vicenda si svolge in Sicilia in tre luoghi principali: il commissariato di Montalbano a Vigata, la trattoria e la casa sulla collina. La casa sulla collina è in campagna, a due ore di strada dalla casa di Montalbano, certamente scelto dagli assassini per la sua posizione isolata e nascosta.
Vi è un riferimento alla città di Marinella, dove abita il commissario.

I personaggi
Ruoli: personaggi principali: il commissario Salvo Montalbano, Augello, i rapitori della donna.
Protagonista: Montalbano, commissario dall’animo freddo e risoluto non si lascia sconvolgere dai fatti che accadono nella casa sulla collina. Commissario paziente, passa la giornata ad interrogare un uomo che non intende rilasciare dichiarazioni e si difende sempre con la medesima frase. Il commissario non dà mai tregua al suo lavoro, che sembra appartenergli appieno, tant’è che, ligio al dovere, segue i due criminali, seppur la sua sfiancante giornata lavorativa sia appena finita.
Antagonista: non vi è un antagonista ben definito, ma dato che il commissario è una figura rappresentativa della giustizia possiamo considerare antagonisti coloro che si oppongono alla legge: il vecchio che si ostina a non rilasciare dichiarazioni, riguardo lo stupro per cui è indagato, e i due assassini, che senza alcuno scrupolo massacrano e cucinano una giovane donna.

Le forme del discorso: I pochi discorsi presenti nel racconto sono diretti, non vi è alcuna presenza di discorsi indiretti. Il discorso diretto è stato probabilmente scelto per dare più velocità e fluidità al racconto.

Linguaggio: Il linguaggio è piuttosto semplice, Camilleri inserisce termini dialettali siciliani, che comunque non rendono difficoltosa la lettura. Le frasi sono piuttosto brevi, la sintassi è semplice, la lettura risulta veloce.

Contestualizzazione della novella
Il racconto lo troviamo nel libro “Racconti di Montalbano”, libro nel quale sono inserite storie scelte dall’autore Andrea Camilleri. Tutta la serie del commissario Montalabano è di genere poliziesco, l’autore ambienta i racconti nella cittadina di Vigata, sulla costa sicula, luogo dove il commissario svolge le sue funzioni di investigatore. Più in generale tutti i racconti sono ambientati in Sicilia e in qualche racconto troviamo anche descrizioni accurate dei luoghi dove si svolgono le vicende.

Citazione (utilizzabile per il video):
Quella nottata di fine aprile era proprio proprio come una volta era parsa a Giacomo Leopardi che se la stava a godere: dolce e chiara e senza vento. Il commissario Montalbano guidava la sua macchina a lento a lento, beandosi della friscanzana mentre se ne tornava nella sua casa di Marinella.[…]

 

AGRIGENTO

TEMPIO DI DEMETRA 

 

Identificazione dell’opera:

Architetto: Sconosciuto

Denominazione: Tempio di Demetra.

Luogo (città): Valle dei templi, Agrigento

Epoca: 480-470 a.C.

Corrente artistica di riferimento: Architettura greca classica, ordine dorico.

Descrizione della pianta: Questo tempio offre un interessante esempio di edificio distilo in antis, ovvero privo del colonnato esterno e costituito da una semplice cella preceduta da un pronao con due colonne. Della struttura originaria si conservano il basamento rettangolare, di m 30×13 c.a, ancora in parte visibile, i muri esterni della cella e quelli divisori tra cella e pronao.

Descrizione dell’interno:Rimangono il basamento (m.30,20 x 13,30) fatto di conci arenarei disposti a graticola, i muri esterni della cella e quello che la separava dal pronao. Essi posano sopra una base di conci messi diritti e sono formati con diverse file di pezzi rettangolari sistemati armonicamente. La cella è avvolta dalle strutture, che hanno occultato la porta della piccola chiesa medioevale di S. Biagio costruita in epoca normanna, con lineamenti semplici, da cui la contrada ha preso il nome.

Descrizione dell’esterno: Della facciata piatta della chiesa di S. Biagio si notano in maniera più rilevante il portale e un bellissimo rosone a due finestre. Caratteristica è la stradina, che conduce alla chiesa, ricavata tra le rocce. Di particolare rilevanza è l’abside posteriore della chiesa, da dove è possibile vedere le basi e parti delle mura del tempio greco.

Decorazioni pittoriche e scultoree (affreschi, tavole, tele, rilievi, statue…): E’ superstite qualche frammento della cornice di trabeazione, insieme ai resti del contornamento in pietra del tetto; sue bellissime gronde e teste leonine sono conservate nel Museo Nazionale.

Inserimento urbanistico e territoriale: Nella parte orientale della città, sul fianco del ripido pendio con cui si conclude la Rupe Atenea nella valle del fiume Akragas (oggi torrente San Biagio), si trova il tempio di Demetra.

Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale): Il tempio di Demetra fa parte di un’area archeologica caratterizzata dall’eccezionale stato di conservazione e da una serie di importanti templi dorici del periodo ellenico. Corrisponde all’antica Akragas, monumentale nucleo originario della città di Agrigento.

Notizie storiche:Parte dell’elevato del tempio venne incorporata nella chiesa medievale di San Biagio di età normanna.

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TEMPIO DI ERCOLE

 

Identificazione dell’opera:

Architetto: Sconosciuto.

Denominazione: Tempio di Ercole o Eracle (dal nome romano dell’eroe)

Luogo (città): Valle dei templi, Agrigento

Epoca: fine VI sec. a.C.

Corrente artistica di riferimento: architettura greca arcaica, stile dorico.

Descrizione della pianta: Sorge su un basamento a  vespaio, l’ampia piattaforma rettangolare allungata, montata su quattro gradoni, un triplice quadrato che occupa una superficie di mq.2.056,89.

Descrizione dell’esterno: Uno dei più belli dell’antichità, è ora ridotto in povere vestigia. Raggiungeva un’altezza di m. 16 circa, ha una peristasi colonne stilobate, cui si accede per un crepidoma di tre gradini. Oggi rimaste erette otto colonne. Presenta un fronte con sei colonne doriche(esastilo) e colonnati laterali con 15 colonne. Sulla fronte orientale sono i resti del grande altare del tempio.

Descrizione dell’interno: All’interno della peristasi si trovava una lunga cella munita di pronao ed opistodomo entrambi in antis, i cui resti sembrano indicare la distruzione dell’edificio a causa di un sisma. Nei resti dell’edificio si riconosce la presenza di scalette interne per l’ispezione del tetto poste nei piloni tra pronao e cella, che diventeranno una presenza tipica nei templi agrigentini. Le colonne, molto alte, sono munite di capitelli assai espansi, con profonda gola tra fusto ed echino.

Decorazioni pittoriche e scultoree (affreschi, tavole, tele, rilievi, statue…): A coronamento del tetto la sima in pietra calcarea era decorata con teste di leone.

Notizie storiche: La cronologia tradizionalmente accettata del tempio lo identifica come il più arcaico dei templi agrigentini, risalente agli ultimi anni del VI secolo a.C. Tale datazione è basata sui caratteri stilistici e soprattutto su proporzioni, numero delle colonne, profilo della colonna e del capitello. Tuttavia alcuni riconducono il tempio all’attività di Terone, poiché presenterebbe innovazioni rispetto alla prassi architettonica del VI secolo a.C. Si potrebbe in tal caso trattare del tempio di Atena ricordato da Polieno  in relazione all’attività edificatoria di Terone, in corrispondenza della sua presa del potere.

Anche i resti della trabeazione costituiscono un problema di datazione, poiché conosciamo due tipi di sime laterali con gronda a testa leonina, una prima – meno conservata dell’altra – databile al 470-60 a.C. e una seconda della metà circa del V secolo a.C.: probabilmente la prima gronda è quella originaria e la seconda una sostituzione più tarda di pochi decenni (per motivi a noi sconosciuti), e dunque il tempio si data, nella sua fondazione, agli anni anteriori alla battaglia di Himera; il completamento sarebbe da collocare un decennio dopo o poco più.

Restauri: L’edificio subì restauri d’età romana ed in particolare la tripartizione della cella, che potrebbe indicare una dedicazione a varie divinità.

Nel XX secolo interventi di restauro hanno reso possibile la ricostruzione per anastilosi di nove delle colonne di un fronte laterale sud-ovest, anche se privo di trabeazione e di alcuni capitelli. Delle 38 colonne (6 sui frontoni e 15 sui lati lunghi contando anche quelle degli angoli), solo 9, rialzate nel 1922, grazie alla munificenza del capitano inglese Alexander Hardcastle, si stagliano, col loro aspetto imponente, in mezzo a tutte le rovine.

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TEMPIO DI GIOVE

Identificazione dell’opera: 

Denominazione: Tempio di Giove Olimpico

Luogo (città) : Agrigento

Epoca:  costruito nei primi decenni del IV secolo a.C

Corrente artistica di riferimento:  arte greca classica

Materiale:  calcarenite locale.

Descrizione della pianta:  Ampia pianta rettangolare preceduta da un pronao sequito da un opistodromo.

I resti monumentali oggi visibili sono ciò che rimane a seguito delle distruzioni di epoca antica e recente.

Descrizione dell’esterno:  Sulla pianta rettangolare si ergeva un basamento (crepidoma) di cinque gradini; al posto del solito colonnato aperto (peristasi) vi era un muro di recinzione scandito da semicolonne doriche (forma pseudoperiptera), sette sui lati brevi e quattordici su quelli lunghi, a cui corrispondevano, nella parte interna, pilastri rettangolari.

Descrizione dell’interno:  Internamente il tempio era diviso in tre vani: quello centrale (cella) preceduto da un atrio di ingresso (pronao) e seguito da un vano posteriore (opistodomo), delimitati da muri perimetrali scanditi da dodici pilastri sporgenti all’interno.

Decorazioni pittoriche e scultoree:  Oggi possiamo ancora vedere elementi della decorazione architettonica della trabeazione del tempio, come i frammenti del frontone scolpito che, secondo la descrizione di Diodoro Siculo, era decorato su un lato da una Gigantomachia e sull’altro dalla Presa di Troia.

Una delle caratteristiche più singolari del tempio sono i telamoni alti circa 8 metri, gigantesche figure mitologiche maschili che sostenevano la trabeazione.

Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale) Dinnanzi alla fronte orientale del tempio, ad una distanza di circa 50 metri, sono visibili i resti di un altare monumentale con scalinata che conduceva alla piattaforma per i sacrifici.

Notizie storiche:  Il tempio di Zeus o Giove Olimpico è uno dei pochi edifici sacri agrigentini di cui è sicura l’attribuzione alla divinità ed era il più grande tempio dorico dell’Occidente.

L’edificio è noto da due fonti antiche. Polibio (II sec. a.C.) ne parla nella sua opera storica e lo descrive come incompiuto e Diodoro Siculo (I sec. a.C.) fornisce una descrizione dettagliata del tempio. Sulla base di queste fonti la realizzazione del tempio viene collocata dopo la vittoriosa battaglia sui Cartaginesi ad Himera nel 480 a.C.

Le più recenti indagini mettono in discussione questa datazione poichè il progetto del tempio di Giove Olimpico si discosta da quelli del tempio di Atena a Siracusa e del tempio di Himera, entrambi realizzati dopo l’accordo di pace del 480 a.C. Non è escluso, pertanto, che la progettazione del tempio e l’inizio dei lavori per la sua realizzazione vadano collocati in un periodo precedente e si possano mettere in relazione con l’inizio della tirannia di Terone (488-472 a.C.).

Restauri:  Numerosi scavi e studi per ricostruire l’aspetto originario del tempio sono stati eseguiti a partire dall’inizio del 1800, sino alle recenti indagini affidate dal Parco all’Istituto Archeologico Germanico di Roma (2000-2006).

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TEMPIO DI GIUNONE

Identificazione dell’opera: 

Denominazione:Tempio di Giunone

Luogo (città) : Agrigento

Epoca:  costruito nella seconda metà del V secolo a.C

Corrente artistica di riferimento: arte classica greca

Materiale:  calcarenite locale.

Descrizione della pianta:  Pianta rettangolare, tempio dorico periptero con 6 colonne sui lati corti (esastilo) preceduto da un pronao seguito da un opistodomo.

Descrizione dell’esterno:  L’edificio poggia su un basamento di quattro gradini e presenta sei colonne sui lati brevi e tredici sui lati lunghi.

Descrizione dell’interno:  L’interno era suddiviso in tre vani: quello centrale (cella) era preceduto da un atrio di ingresso (pronao) e seguito da un vano posteriore (opistodomo), questi ultimi avevano due colonne antistanti; ai lati della porta della cella si trovavano le scale di accesso al tetto. Il basamento con tre gradini sul fondo della cella fu aggiunto in epoca successiva.

Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale) Sul lato est si trovano i resti dell’altare monumentale preceduto da una scalinata di dieci gradini che conduceva al piano dove si celebravano i sacrifici.

Inserimento territoriale:  sorge in posizione dominante presso l’estremità orientale della Collina dei Templi.

Notizie storiche:  La superficie di alcuni blocchi arrossati mostra i segni dell’incendio forse riconducibile alla distruzione di Akragas compiuta dai Cartaginesi nel 406 a.C.

A Ovest del tempio si trova la Porta III – di cui oggi rimane ben poco a causa della frana di parte del costone roccioso – originariamente aperta in una rientranza obliqua rispetto alla linea delle fortificazioni e percorsa da una carreggiata stradale ancora visibile. Il sistema difensivo risalente alla fine del VI sec. a.C. fu rinforzato durante il IV sec. a.C. dalla costruzione, a nord-est della porta e del tempio, di un imponente torrione di cui oggi rimane parte del crollo dell’elevato.

Il tempio viene  attribuito a Giunone per un’erronea interpretazione di un brano di un autore latino.

Restauri:  Numerosi restauri sono stati eseguiti a partire dalla fine del XVIII secolo, quando furono risollevate le colonne del lato nord, sino agli ultimi interventi di tipo statico e conservativo delle superfici lapidee effettuati dal Parco (Sicilia 2000-2006).

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IL TEMPIO DEI DIOSCURI

 

Luogo: Valle dei Templi, Agrigento.

Epoca: alcuni lo fanno risalire ad un periodo compreso fra gli anni 480 e 460 a.C., altri pensano che sia una costruzione del IV o III secolo a.C.

Corrente artistica di riferimento: architettura greca classica di stile dorico.

Descrizione della pianta: presenta una pianta simile a quella degli altri templi agrigentini con sei colonne sui lati brevi (quindi il tempio è esastilo) e tredici sui lati lunghi.

La cella probabilmente si ritiene fosse aperta al centro (ipetra).

Descrizione dell’esterno: La sua alta piattaforma è montata su 3 gradoni estesi all’interno perimetro. Delle 34 colonne solo 4 si stagliano in mezzo a tutte quelle rovine; altre 4 colonne delimitano la cella nei due lati corti.

Le colonne sono formate da tre rocchi tufacei, con un fascio di 20 scanalature a spigolo vivo, raggiungono un’altezza di m 5,27 ed hanno un diametro di m 1,10.

Il fregio del tempio, tagliato orizzontalmente, ci dà una strana sensazione: è come se la parte superiore della trabeazione sia stata “posata” successivamente sulla parte inferiore.

Decorazioni pittoriche e scultoree:

Sul vano delle metope molto probabilmente vi erano degli affreschi, che rappresentavano le varie fasi del culto alla divinità a cui il tempio era dedicato.

Il tempio mostra, inoltre, una decorazione fogliata ricca e varia.

Lo spigolo esistente mostra un rosone, simbolo dell’isola di Rodi. Ai 4 lati del tetto si notano esemplari di grondaia dalla forma a testa di leone con la lingua rossa. Il ruolo della figura del leone, di cui questo tempio come quello di Demetra e di Ercole si avvaleva, era soprattutto quello di spaventare le potenze del male e di allontanarle. Le maschere leonine avevano dipinte in turchese la criniera, in giallo il muso e in rosso la lingua, che serviva da canale di scorrimento. Alle teste di leone si alternavano le antefisse a forma di palmette, simbolo del trionfo, alternativamente di colore rosso e turchese. Una smagliante policromia, sovrapposta allo stucco, indispensabile per proteggere il materiale, completava la decorazione.

Inserimento urbanistico e territoriale: il tempio si trova nel terrazzo mediano della Valle del templi, di cui è visibile la ricostruzione dell’angolo nord-ovest eseguita nel 1836 dalla Commissione delle antichità della Sicilia.

Adiacenze: nelle immediate vicinanze del suo lato meridionale, nel 1932, furono scoperte le rovine di un altro tempio ad esso parallelo. Tale scoperta si è rivelata molto importante ai fini dell’individuazione delle divinità alle quali i due templi erano dedicati. A tale proposito è da tenere presente il fatto che il tempio in questione è situato al centro di un importantissimo santuario dedicato alle divinità ctonie (Demetra, Persefone e Dioniso) e che, molto probabilmente, ad esse era dedicato. L’ipotesi più attendibile, anche perché confortata da molte prove, è quella che il tempio fosse dedicato a Persefone e a suo figlio Dioniso. Attorno ai templi, a giustificare tale ipotesi, Marconi trovò nel 1932 un vaso pertinente al culto orgiastico di Dioniso.

Notizie storiche: Il tempio di Castore e Polluce (i Dioscuri) è quello che più rappresenta la sigla di Agrigento artistica. Castore e Polluce erano due gemelli nati dall’unione di Leda, regina di Sparta, con Giove. Castore era mortale, mentre Polluce era immortale. La leggenda vuole che quando Castore morì, Polluce chiese al padre di renderlo mortale per poter riunirsi al fratello. Zeus lo esaudì e fece in modo che i due tornassero alla vita alternativamente, un giorno ciascuno.  Furono inoltre posti nella costellazione dei Gemelli dove, quando una stella muore, ne nasce un’altra.

Restauri: può darsi che il Duca di Serradifalco, che nell’Ottocento riedificò tre colonne (alle quali ne fu aggiunta poi una quarta per motivi di stabilità), pur di arrivare ad una soluzione, abbia impegnato elementi architettonici pertinenti a fasi diverse, come i gocciolatoi per l’acqua piovana a forma di testa di leone che risalgono ad epoca ellenistica.

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IL TEMPIO DELLA CONCORDIA

 

Luogo: Valle dei Templi, Agrigento.

Epoca: 440-430 a.C.

Corrente artistica di riferimento: architettura greca classica di stile dorico.

Descrizione dell’esterno: poggia su un basamento di quattro gradini e presenta sei colonne sui lati brevi e tredici sui lati lunghi, ogni colonna, dell’altezza di m. 6,75, è costituita da 4 tamburi, con un fascio di 20 scanalature a spigolo vivo. Sopra le colonne vi sono i capitelli con due elementi quali l’echino e l’abaco. La trabeazione è costituita da due elementi, ossia dall’architrave e dal fregio con metope e triglifi. Infine abbiamo il frontone con il timpano, il frontone triangolare viene ornato con degli acrotèri, nei lati lungi del tempio vengono sistemate delle grondaie a testa di leone.

Interno: L’interno era suddiviso in tre vani: quello centrale (cella) era preceduto da un atrio di ingresso (pronao) e seguito da un vano posteriore (opistodomo), questi ultimi avevano due colonne antistanti; ai lati della porta della cella si trovano le scale di accesso al tetto. Le dodici arcate ricavate nei muri della cella e le tombe scavate nel pavimento sono dovute alla trasformazione del tempio in basilica cristiana, grazie alla quale l’edificio deve il suo ottimo stato di conservazione. Infatti, secondo la tradizione, verso la fine del VI sec. d.C. il vescovo Gregorio si insediò nel tempio e lo consacrò ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, dopo aver scacciato i demoni pagani Eber e Raps che vi risiedevano.

Decorazioni pittoriche e scultoree: L’interno e l’esterno del tempio erano ricoperti da un rivestimento di stucco bianco sottolineato da elementi policromi.

Inserimento urbanistico e territoriale: Sulla roccia affiorante a ovest del tempio si estendeva la necropoli paleocristiana (III-VI sec. d.C.) correlata alla trasformazione dell’edificio in basilica, comprendente un vasto settore di sepolture all’aperto (sub divo) scavate nel banco roccioso e un’ampia catacomba comunitaria con vari ipogei destinati a nuclei familiari.

Adiacenze:  a est del tempio sono visibili una serie di tombe ad arcosolio ricavate nello spessore del costone roccioso, che aveva costituito la base delle fortificazioni di età greca.

Notizie storiche: Il tempio deve il suo nome allo storico Fazello (1490 – 1570), il quale rinvenne un’iscrizione latina dedicata alla Concordia dagli Agrigentini  nelle vicinanze, non avente, invero, alcun rapporto con il tempio. Nel 597 il tempio fu trasformato in basilica cristiana dal vescovo Gregorio dedicata ai Santi Pietro e Paolo, grazie a questo episodio il tempio è giunto sino ai nostri giorni in ottimo stato di conservazione. Dopo che furono abbattuti due idoli pagani Eber e Raps, la Chiesa fu poi consacrata a S.Gregorio delle Rape.

Restauri: I primi studi e lavori di scavo avvennero negli ultimi decenni del XVIII sotto i Borboni ad opera di Gabriele Lancellotto Castelli principe di Torremuzza, l’allora responsabile della tutela dei beni culturali siciliani, ma l’opera di recupero e restauro sistematica nella valle dei Templi è cominciata solo dopo la prima guerra mondiale.

I più recenti lavori di restauro sono terminati nel 2006.

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Letteratura – Maraini

DACIA MARAINI

 

BAGHERIA

Romanzopubblicato nel 1993 dalla casa editrice Rizzoli.

Struttura: La famiglia Maraini, trasferitasi in Giappone nel 1938 proprio per lasciare l’Italia fascista, nel 1943 fu internata in un campo di concentramento, dal quale uscì solo nel 1946 (rottura dell’equilibrio). Tornati in Italia, Dacia e la sua famiglia si stabiliscono a Bagheria, devastata dalla guerra, con case che sembrano reggersi solo perché si appoggiano le une alle altre, alternate a palazzi baronali e strade che a momenti entrano nei vigneti (ricerca dell’equilibrio con il rientro in Sicilia). L’infanzia a Bagheria trascorre tra il ricordo ricorrente degli anni vissuti nel campo di concentramento, dove si combatteva la fame e la morte era ormai diventata una cugina, e la vita nella dépendance di villa Valguarnera, una ex-stalla, dalla quale erano state ricavate tre stanzette con un bagno grande quanto una cabina di mare e con l’odore del pollaio sotto la finestra, uno spazio era molto piccolo per una famiglia di cinque persone.

Se prima questo piccolo paese si era salvato dalla mano profanatrice dell’uomo, possedeva ancora i suoi gelsi e gli altri alberi da frutto, col tempo Bagheria è rimasta sopraffatta dai palazzi di cemento, dalla crudeltà della mafia, rovinata dalla politica blasfema che la Maraini attacca fortemente (impossibilità di ricreare un equilibrio).

Fabula e intreccio: Il racconto (la fabula) intreccia gli eventi con flash-back, salti temporali, analisi dettagliate di certi periodi e sintesi di altri. Si assiste ad un flusso di coscienza (stream of consciousness in lingua inglese), che consiste nella libera rappresentazione dei pensieri di una persona così come compaiono nella mente, prima di essere riorganizzati logicamente in frasi. Il flusso di coscienza viene realizzato tramite il monologo interiore, che fa emergere in primo piano l’individuo, con i suoi conflitti interiori e, in generale, le sue emozioni e sentimenti, passioni e sensazioni

Il narratore: E’ interno (narra in prima persona), per l’autrice Bagheria è un mondo, è un formicolio di persone, di personaggi che vengono fuori piano piano dalla memoria.

Il tempo: la storia si svolge dall’epoca della seconda guerra mondiale all’epoca contemporanea.

I luoghi: Bagheria e la Sicilia; il Giappone.

Personaggi: I personaggi principali sono Dacia e la sua famiglia: la mamma, Topazia Alliata; il padre, Fosco Maraini, che l’avvicina alla scrittura.

I personaggi secondari sono i nonni, Enrico e Sonia, e le zie Felicita (che la Maraini paragona alla scrittrice statunitense Gertrude Stein) e Saretta.

Il linguaggio: Il romanzo è scritto con un linguaggio semplice, comprensibile, talvolta arricchito di espressioni dialettali siciliane per descrivere meglio la società, come il gelo di mellone, che era il tipico gelato di Bagheria, oppure parca, oppure sciacquatunazzu che significa bello. Il linguaggio è arricchito di molte descrizioni, metafore e similitudini; tra le metafore, ricordiamo un sorriso propiziatorio verso un mondo adulto offuscato le cui divinità sembravano essersi scatenate alla mia nascita per giocare pericolosamente col mio futuro; tra le similitudini ricordiamo invece il paragone degli anziani, gli anziani sembravano chiusi come frutti di mare ormai morti e rinsecchiti dentro le conchiglie preziose in cui avevano creduto di potere conservare in eterno le loro perle semplicemente chiudendo le valve dentate.

Contestualizzazione: L’autrice racconta la sua infanzia, il passato che l’ha tanto segnata. In questo romanzo Dacia Maraini cerca il filo conduttore della sua vita, dei suoi parenti, dei quali non aveva mai voluto sapere nulla, della sua vecchia abitazione, recupera la sua appartenenza, seppure parziale, a quel mondo siciliano contadino e paesano fatto di ulivi, di mare, di gelsomini. Bagheria per la scrittrice è fonte di amore e di dolore, poiché ella vi ha passato parte della sua vita insieme alla famiglia e vi è perciò affezionata, ma allo stesso modo ha scoperto molti aspetti di quel mondo ingiusto, al quale porta un irremovibile rancore. Non mancano le critiche sullo stato del paese al giorno d’oggi. L’autrice riscontra un profondo cambiamento tra il paese della sua infanzia e il paese dopo parecchi anni, esprimendo una visione molto critica del dopoguerra in Sicilia.

Questo romanzo si può collocare nella tradizione novecentesca, durante la quale questo genere tende a normalizzarsi; recupera alcuni aspetti della struttura ottocentesca, come l’importanza della trama e dell’azione, l’impianto realistico e contemporaneamente riprende alcune delle soluzioni sperimentali che la narrativa d’avanguardia aveva elaborato, come le tecniche surreali, il monologo interiore e la problematicità e pluralità di prospettive della narrazione. Questo tipo di romanzo tende a una misura sempre mobile, varia e originale fra oggettività narrativa e analisi interiore, realismo e surrealismo, norma e infrazione.

 

Citazioni (utilizzabili per il video):

 Parlare della Sicilia significa aprire una porta rimasta sprangata. Una porta che avevo talmente bene mimetizzata con rampicanti e intrichi di foglie da dimenticare che ci fosse mai stata; un muro, uno spessore chiuso, impenetrabile. Poi una mano, una mano che non mi conoscevo, che è cresciuta da una manica scucita e dimenticata, una mano ardimentosa e piena di curiosità, ha cominciato a spingere quella porta strappando le ragnatele e le radici abbarbicate.

…conoscevo troppo bene le arroganze e la crudeltà della Mafi,a che sono state proprio le grandi famiglie aristocratiche siciliane a fare prosperare, perché facessero giustizia per conto loro presso i contadini, disinteressandosi dei metodi che questi campieri usavano in nome loro, chiudendo gli occhi sugli abusi, sulle torture, sulle prepotenze infinite che venivano fatte sotto il loro naso, ma fuori dal raggio delicato dei loro occhi.

 

 

LA LUNGA VITA DI MARIANNA UCRìA

Romanzo (1990) – Premio Campiello 1990

Struttura: La situazione iniziale presenta Marianna come una bambina di famiglia nobile, destinata, come le altre donne di famiglia, a sposarsi con un pretendente di alto lignaggio e ad avere figli quali eredi del casato oppure a farsi monaca. Tuttavia qualcosa impedisce che Marianna, anche se bella ed intelligente, possa fare un buon matrimonio: la piccola diventa sordomuta in seguito ad un terribile trauma (la violenza da parte di uno zio, che rompe l’equilibrio) e a nulla vale il tentativo paterno di sottoporla ad un nuovo shock, ovvero assistere ad una esecuzione a morte per impiccagione, per indurla a tornare a parlare. Marianna tuttavia nella sua innocenza di bambina censura il trauma subìto e lo rimuove per anni dalla propria coscienza.

A soli 13 anni la famiglia Ucrìa destina la figlia al matrimonio proprio con lo zio carnefice, dal quale ha cinque figli. Marianna si trova così a subire le necessità familiari e i doveri coniugali con una ferrea capacità di sopportazione e, non potendo palare, comunica con tutti attraverso la scrittura e si immerge con crescente passione nella lettura dei libri, diventando una donna colta, dalla mentalità aperta e dallo spiccato senso critico. Solo da adulta Marianna prende dolorosamente coscienza della causa del proprio handicap e questa nuova consapevolezza le permette di capire meglio la propria identità.

Marianna riuscirà a ricomporre delle precarie fasi di equilibrio immergendosi in un amore disperato per un uomo molto più giovane di lei, Saro, o compiacendosi per conversazioni di alto livello intellettuale con il pretore di Palermo Giacomo Camaléo. Tuttavia la società aristocratica siciliana del tempo e le pressioni della famiglia non le consentono di vivere con libertà le proprie passioni ed ella trova una relativa serenità solo staccandosi dalla Sicilia e dall’amore impossibile per Saro, per condurre una vita errabonda per l’Italia (ricomposizione dell’equilibrio).

Fabula e intreccio: La storia è narrata in ordine cronologico a grandi linee, dall’infanzia alla piena maturità di Marianna; l’intreccio pertanto si allinea alla fabula, tuttavia posticipa la rivelazione del suo trauma infantile e lo introduce solo ad un punto avanzato del racconto, per creare suspance e mistero sul mutismo della protagonista.

Sequenze: Essendo Marianna sordomuta, scarse sono le sequenze dialogiche mediate attraverso il biglietti scritti da lei. Ci sono invece sequenze descrittive , narrative e soprattutto riflessive in cui emergono i pensieri della donna.

Narratore: Il narratore è esterno e utilizza nel racconto la terza persona, tuttavia il suo punto di vista ha una focalizzazioneinterna, perché vede il mondo con gli occhi di Marianna Ucrìa e non anticipa la conoscenza degli eventi, fino a che non è lei stessa a scoprirli. Oltretutto Marianna ha il dono particolare di far propri i pensieri di altre persone che le stanno vicino, quasi come se avesse un particolare dono di conoscenza: pertanto, anche a dispetto delle apparenze e delle comunicazioni verbali, ella coglie anche i pensieri più intimi e scomodi dei suoi interlocutori.

Tempo: L’epoca della storia è la prima metà del ‘700 e la narrazione dura 40 anni, da quando Marianna ha 5 anni a quando ne ha 45. Ci sono ellissi, ovvero salti temporali anche di anni, oltre ad analisi dettagliate di situazioni significative ai fini del racconto circoscritte nel tempo. Non ci sono mai anticipazioni sul futuro, am non mancano dei flash-back nel passato: è determinante quello che porta Marianna adulta a ricordare la violenza infantile.

Luoghi: La storia si svolge tra la Villa Ucrìa di Bagheria, i possedimenti terrieri di famiglia in campagna e vari luoghi di Palermo (il Palazzo Ucrìa in via Alloro, la Vicarìa, Piazza Marina teatro delle esecuzioni e degli autodafè, la cripta dei Cappuccini e il manicomio di S. Giovanni dei Lebbrosi). Solo nel finale Marianna risale la penisola sostando a Napoli e a Roma.

L’ambientazione in Sicilia è autobiografica, visto che è la terra in cui affondano le radici familiari della scrittrice. Inoltre, mentre il ‘700 è in Europa il secolo dei lumi , Palermo vive nell’arretratezza e nell’oscurantismo, dominata da una nobiltà ormai in declino.

Personaggi

Ruoli

Personaggi principali: Marianna, il padre, il marito-zio Pietro.

Personaggi secondari: la madre, i fratelli Signoretto, Carlo e Geraldo, le sorelle Agata e Fiammetta, i figli Giuseppa, Felice, Manina, Signoretto e Mariano, la cuoca Innocenza, la serva Fila, Saro e la moglie Peppinedda, il pretore Giacomo Camaleo.

Comparse: il giovane condannato a morte, i vari dipendenti della famiglia Ucrìa.

Funzioni

Protagonista: Marianna Ucrìa

La sua menomazione, anziché essere un impedimento, è una risorsa che le da la forza di elevarsi al di sopra della mediocrità che la circonda. Marianna, muta, scrive molto, legge e affina gli altri sensi, diventando una donna colt grazie alla sua ricca biblioteca. S’interessa anche di filosofia e medita sul pensiero di Hume, aprendosi anche alle nuove idee illuministe. Ella conosce solo da donna matura un vero amore-passione e se ne lascia coinvolgere, per quanto poi prevalga in lei il senso del dovere.

Marianna con la sua menomazione rappresenta il ruolo della donna siciliana del XVIII sec., che non può ascoltare e prendere coscienza di ciò che accade e non può intervenire nei discorsi e nelle decisioni più importanti. Tuttavia ella non si arrende e cerca di vincere i propri limiti. Rimasta vedova, ella riesce a guidare la famiglia, a condurre l’amministrazione delle proprietà terriere, visitandole di persona. Inoltre si distingue dalle altre donne dell’epoca per la sua cultura, il suo coraggio, la sua disponibilità a viaggiare.

Marianna è l’unico personaggio veramente dinamico, capace di crescere intellettualmente, di diventare intraprendente, di concedersi delle libertà che danno scandalo.

Antagonista: Pietro, il marito-zio, un uomo arcigno e chiuso, incapace d’amore verso chiunque, refrattario al dialogo, marito-padrone che fa subire alla propria moglie ogni rapporto come una violenza, interessato solo allla storia di famiglia e alla continuità dinastica: è il tipico nobile ottuso, ignorante e conservatore.

Oppositori:

  • Il padre, in apparenza un aiutante, in realtà è un carnefice che conosce la tragedia dello stupro della propria bambina, la nasconde e peggiora la situazione dando Marianna in sposa ad un mostro; tuttavia egli prova forse qualche senso di colpa verso l’ingenua Marianna, che pure l’ammira, e la ricompensa con una generosa eredità.
  • La madre, donna indolente e dipendente dal tabacco nonché da sostanze oppiacee, è incapace di amore materno e di protezione verso i propri figli.
  • Il fratello Signoretto, primogenito ed erede degli Ucrìa, è simile al padre e diventa senatore.
  • Il fratello Carlo, monaco senza vocazione, uomo pingue, vizioso e propenso al piacere, oltre che rinomato studioso di manoscritti antichi, è l’involontario tramite per la presa di coscienza di Marianna del proprio passato.
  • Il fratello Geraldo, destinato alla carriera militare, è un uomo ambizioso, donnaiolo, freddo.
  • La sorella monaca Fiammetta è sempre pronta ad esprimere giudizi pungenti.
  • Il figlio Mariano, l’unico erede maschi sopravvissuto, da bambino è oggetto dell’affetto di Marianna, ma poi crescendo la critica per il suo comportamento troppo scandaloso; egli è un uomo arrogante ed interessato solo al patrimonio.

Aiutanti:

  • La cuoca Innocenza, una sana ed energica donna del popolo
  • La cameriera Fila, una creatura fragile e apparentemente indifesa, anche se nel è capace di un raptus omicida nei confronti del fratello Saro, della cognata e del nipotino per gelosia.
  • La sorella Agata, da bambina nota per la sua bellezza, ma poi distrutta da troppe gravidanze.
  • La figlia Manina, dolce e sensibile, sottomessa ai genitori e portatrice di pace tra i fratelli, con un forte spirito materno, anche lei sposa bambina a 12 anni.
  • La figlia Giuseppa, dapprima ostile al matrimonio e poi capace di lottare per la scelta del proprio sposo, anche se la scelta poi risulta fallimentare ed ella si consola tra le braccia del cugino Olivo.
  • La figlia Felice, destinata al convento, dove però vive per anni in piena mondanità, per dedicarsi poi alla cucina, all’erboristeria ed alla medicina.
  • Il figlio Signoretto, primogenito debole e malato, morto a soli 4 anni, amatissimo da Marianna.
  • Saro, il fratello di Fila, giovane di bell’aspetto che finalmente fa vivere a Marianna un vero amore, anche se irrealizzabile, tant’è vero che lei, per liberarsene, gli cerca persino una moglie e alla fine fugge lontano.
  • Il pretore di Palermo giacomo Camaleo, uomo colto, dall’intelligenza viva, galante, che tratta Marianna da sua apri, le permetti di affrontare acute discussioni intellettuali, le manifesta attenzioni e grande rispetto.

Forme del discorso: Pochi sono i discorsi diretti, visto che la protagonista è sordomuta. Si usano discorsi diretti liberi, quando Marianna assume su di sé i pensieri invadenti e scomodi delle persona che la circondano, come se li sentisse risuonare dentro di sé. Inoltre si usa il discorso indiretto libero quando sono riportati i pensieri di Marianna in modo indiretto, senza che siano introdotti da verbi dichiarativi.

Linguaggio: La prosa è realistica, ma colta: il mondo è filtrato attraverso la sensibilità di Marianna, che è una donna istruita, dall’intelligenza acuta e sottile. Il linguaggio diventa più popolare e dialettale, tipicamente siciliano, quando si esprimono gli altri personaggi, sia nobili sia popolani, accomunati tutti da una comune ignoranza. Più forbito è solo il linguaggio del colto pretore Camaleo.

Contestualizzazione:

Nata nel 1936, Dacia Maraini è figlia di una principessa siciliana di antico casto e dopo gli anni in campo di concentramento in Giappone da bambina va a vivere in Sicilia presso i nonni materni in una villa a Bagheria. Marianna è quindi una figura autobiografica, anche perché Dacia da piccola per timidezza preferiva comunicare con la scrittura piuttosto che con la voce. Inoltre la protagonista permette alla scrittrice di focalizzare la sua attenzione su due temi a lei cari: la violenza sulle donne (fu anche un’attiva femminista negli anni ’70) e l’infanzia violata.

 

Citazione adatta da abbinare ai palazzi barocchi siciliani:

…la grandezza dei nobili consiste proprio nel disprezzare i conti, quali che siano. Un nobiluomo non fa mai calcoli, non conosce nemmeno l’aritmetica. Per questo ci sono gli amministratori, i maggiordomi, i segretari, i servitori. Un nobiluomo non vende e non compra. Semmai offre ciò che vi è di meglio sul mercato a chi considera degno della sua generosità. Può trattarsi di un figlio, di un nipote, ma anche di un accattone, di un imbroglione, di un avversario al gioco, di una cantante, di una lavandaia, secondo il capriccio del momento. Poiché tutto quello che cresce e si moltiplica nella bellissima terra di Sicilia gli appartiene per nascita, per sangue, per grazia divina, che senso ha calcolare profitti e perdite? Roba da commercianti e borghesucci…