SIRACUSA

ANFITEATRO ROMANO:

Luogo: Siracusa, Colle Temenite

Epoca: tra il I ed il II secolo d.C.
Corrente artistica di riferimento: arte romana tardo-antica

Pianta: L’anfiteatro ha una pianta ellittica, scavata nella roccia, con due ingressi opposti (uno situato a nord ed uno a sud) e gradinate concentriche divise da due deambulatori; al centro vi sono l’arena ed un sotterraneo, dove erano posti i macchinari per gli spettacoli.
Alzato:La cavea era divisa dall’arena da un podio (probabilmente rivestito di marmo) su cui poggiava la prima fila di gradini, destinata agli ospiti di riguardo, i cui nomi erano inscritti nella balaustra del parapetto; la scalinata, alla quale si accedeva tramite un complesso sistema di gradinate interne, procedeva quindi interrotta solamente da corridoi, di cui l’ultimo fungeva da coronamento dell’anfiteatro, di questo sono state rinvenute alcune colonne. Il perimetro esterno doveva essere formato da pilastri ed archi, in modo simile al Colosseo, con solo delle semicolonne come decorazione.
Decorazioni: Se si esclude il rivestimento di pietra atto a nascondere la qualità scadente della pietra con cui era stato costruito, l’anfiteatro doveva abbastanza spoglio, senza decorazioni particolari, eccetto semicolonne ai lati degli archi ed il porticato che coronava l’anfiteatro.
Inserimento urbanistico e territoriale: L’anfiteatro si trova sul colle Temenite a Siracusa, tuttavia è orientato in modo obliquo rispetto alla Neapolis, che si trova sullo stesso colle, mentre si allinea con l’impianto di Acradina. L’edificio è stato scavato direttamente nel colle, escluso il lato sud, e vi si poteva accedere tramite due ingressi posti a nord ed a sud, Quest’ultimo dava su di un piazzale verso cui convergeva l’asse viario che divideva la Neapolis dall’Acradina.
Edifici e strutture adiacenti: Appena oltre l’ingresso nord era situata una fontana, che riceveva acqua da una cisterna oggi conservata sotto la chiesa di San Nicolò; inoltre in tempi recenti dei sarcofagi provenienti dalle necropoli di Siracusa e Megara Iblea sono stati posizionati in uno spazio non distante dall’anfiteatro. L’anfiteatro è inoltre inserito nel parco archeologico della Neapolis, pertanto vicino al Teatro greco ed alla Latomia del Paradiso.

Storia: L’anfiteatro venne probabilmente iniziato sotto il regno di Nerone, ma assunse la forma odierna solo nel III-IV secolo d.C. Nel XVI secolo d.C. venne quindi spogliato dei materiali, utilizzati per fortificare Ortigia, mentre verrà riportato alla luce nel 1839 dal duca di Serradifalco.

Restauri e modifiche:
I-II secolo d.C.: Inizia la costruzione dell’anfiteatro
III secolo d.C.: Viene ricostruito nella forma di cui oggi vediamo i resti.
XVI secolo d.C.: Viene spogliato della quasi totalità della pietra, utilizzata per le fortificazioni.
1839: Scavi archeologici da parte del duca di Serradifalco.

SIRACUSA: TEATRO GRECO

Architetto: Damocopos detto Myrilla
Luogo: Siracusa, Colle Temenite
Epoca: V secolo a.C.
Corrente artistica di riferimento: Arte greca classica
Pianta: La pianta era in origine formata da una cavea, divisa in nove settori, a forma di ferro di cavallo, un’orchestra di forma semicircolare e da un edificio scenico di pianta rettangolare; una scala portava inoltre da una stanzetta sotterranea direttamente sul palcoscenico, permettendo agli attori di compiere apparizioni ad effetto. In epoca romana la pianta della cavea divenne semicircolare ed all’edifico scenico furono aggiunti due corridoi per accedervi dai lati, inoltre il canale che divideva l’orchestra dalla cavea venne sostituito da uno più a ridosso dei gradini.
Alzato: La cavea (di cui oggi restano solamente 46 gradini) era divisa in nove settori, detti cunei, a cui erano abbinati i nomi dei membri della famiglia reale e di alcune divinità, era inoltre divisa ulteriormente in due da un corridoio (diazoma). Tutto il teatro era costruito tenendo conto sia dell’acustica sia del panorama, che offre la visione dell’isola di Ortigia, nonostante un tempo fosse seminascosta dalla scena.
Decorazioni: Non si conosce molto della decorazione di questo teatro, tuttavia è stata ritrovata una cariatide (oggi conservata al Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi), che probabilmente faceva parte dell’edificio scenico.
Inserimento urbanistico e territoriale: Il teatro è situato nel parco archeologico della Neapolis, sul lato sud del colle Temenite a Siracusa.
Edifici e strutture adiacenti: Appena sopra la cavea si trova una terrazza, che in origine ospitava un portico ad L, questa era accessibile tramite una strada incassata nota come “via dei sepolcri” oppure tramite una gradinata centrale; la parete rocciosa di fondo presenta inoltre una grotta-ninfeo, da cui il teatro attingeva l’acqua.
Storia: Il teatro venne costruito nel V secolo a.C., tuttavia nel III secolo a.C. venne ricostruito nella forma che vediamo oggi. In epoca romana subì altre modifiche per adattarlo alle esigenze dell’epoca, ad esempio l’orchestra venne modificata in modo da poter ospitare giochi acquatici. Il teatro venne progressivamente abbandonato, al punto tale che nel 1526 venne smantellato in larga parte, in modo da utilizzarne la pietra per fortificare Ortigia, mentre l’acquedotto venne riattivato per poter installare dei mulini. Dalla fine del 1700 riprese l’interesse per il teatro e scavi archeologici proseguirono fino al 1988, mentre dal 1914 ripresero le rappresentazioni delle antiche opere greche.
Restauri e modifiche:
III secolo a.C.: il teatro fu ricostruito quasi totalmente
prima età augustea: modifiche alla pianta, alla scena ed all’euripo
età tardo-imperiale: modifica all’orchestra per permettere giochi acquatici
1526: spoliazione del teatro per fortificare Ortigia
seconda metà del 1500: riattivazione dell’acquedotto ed inserimento di alcuni mulini nelle vicinanze
da fine 1700 fino al 1988: vari scavi archeologici
1914: riprendono le rappresentazioni

  SIRACUSA: ORECCHIO DI DIONIGI O DI DIONISO

L’Orecchio di Dionigi (o Orecchio di Dionisio) è una grotta artificiale che si trova nell’antica cava di pietra detta latomia del Paradiso, poco lontano dal Teatro Greco di Siracusa.
Scavata nel calcare, la grotta è alta circa 23 m e larga dai 5 agli 11 m e si sviluppa in profondità per 65 m, con un andamento ad S.
Secondo la leggenda, la sua particolare forma ad orecchio d’asino fece coniare al pittore Caravaggio, recatosi nella città Aretusea nel 1608 in compagnia dello storico siracusano Vincenzo

Mirabella, l’espressione Orecchio di Dionisio. Secondo la tradizione infatti il tiranno Dionisio fece scavare la grotta dove rinchiudeva i prigionieri e, appostandosi all’interno di una cavità superiore,

ascoltava i loro discorsi. Grazie alla sua forma, l’Orecchio di Dionisio possiede caratteristiche acustiche tali da amplificare i suoni fino a 16 volte. Secondo alcuni la presenza della cavità sotto la cavea del Teatro Greco favorisce l’acustica dello stesso teatro.
Recentemente è stato proposto dai Platonici di rinominare l’Orecchio di Dionisio “Caverna di Platone”, considerando il fatto che il filosofo ateniese fu uno dei prigionieri del tiranno siracusano e che, nei libri centrali della “Repubblica”, il mito della caverna è evocato con immagini che richiamano da vicino la cava di Siracusa.
Caravaggio ambientò in questa latomia il celebre quadro Il seppellimento di Santa Lucia.

VIA MAESTRANZA

Antico asse della città medievale, divenuto già dal sec. XVI strada rappresentativa della nobiltà locale, mostra un susseguirsi pressoché ininterrotto di antichi palazzi, trasformati in epoca barocca e

abbelliti da cornicioni, mascheroni, balconate in ferro battuto rette da mensole scolpite.

dentificazione dell’opera
Denominazione: Palazzo Impellizzeri
Luogo: Isola di Ortigia (Siracusa)
Epoca: 1894
Correnti artistiche di riferimento: Barocco, Rococò

Descrizione dell’esterno
L’edificio fonde lo stile barocco al neoclassico; al primo livello presenta un grande portale sormontato dallo stemma nobiliare della famiglia e diversi pilastri inquadrano sia il portale che le finestre, nel piano superiore fa bella mostra di sè un balcone lungo quanto tutto il prospetto racchiuso da una inferriata in ferro battuto. Tutte le finestre e i balconi (tranne quello centrale che è sormontato da timpano semicircolare) sono sormontati da travetti rettangolari. All’ingresso del palazzo ci sono due lapidi commemorative riguardanti la famiglia Impellizzeri.
La presenza anche dello stile rococò è confermata dal fregio sopra il balcone principale.
Il prospetto presenta una trabeazione decorata con motivi floreali e sul cornicione volti umani.
Sulla facciata si susseguono finestre e balconi dalle linee sinuose.

Descrizione dell’interno
Le stanze sono decorate con stucchi del 700 e vi si trovano tele settecentesche, mobili antichi e superbi lampadari in ferro battuto. Tra le stanze ve n’è una chiamata Sala d’Armi, che si differenzia dalle altre per il grandissimo e bellissimo affresco raffigurante lo stemma della nobile famiglia Impellizzeri.
Sulla pavimentazione policroma interna si trovano gli stemmi dei casati e la lettera “G” che indica l’appartenenza ai Loggia.
Oggi il pianoterra ospita gli uffici dell’Archivio di Stato della Provincia di Siracusa.

Inserimento urbanistico e territoriale
Ortigia, via della Maestranza, civico 99.
Attuale sede della Facoltà di Architettura.

Notizie storiche
E’ stato edificato nel contesto creatosi in seguito agli sforzi post-sisma, che hanno dato vita ad un concetto di urbanistica svincolato dai canoni del momento, in cui i diversi palazzi barocchi risentirono dell’influenza del Rococò.

Identificazione dell’opera
Denominazione: Palazzo Zappata-Gargallo
Luogo: via Maestranza, isola di Ortigia (Siracusa)
Epoca: XV-XVIII secolo
Corrente artistica di riferimento: Barocco

Descrizione
La facciata principale presenta un elegante portale architravato a bugne lisce.
Spiccano inoltre gli eleganti balconi e il grande stemma di famiglia sul cantonale. Oltre alla muratura quattrocentesca, l’edificio originario mantiene per lo più la propria altezza.
Gli elementi settecenteschi aggiunti ne hanno determinato l’immagine barocca.
L’accesso al palazzo è garantito da un portale arcuato posto al centro della parte inferiore della facciata (con parete a gradoni), ai cui lati vi sono sei aperture arcuate (tre per lato) comunicanti con locali staccati dal palazzo adibiti ad esercizi turistico – commerciali (locali di ritrovo o negozi). L’interno del Palazzo Gargallo è adibito ad uso abitativo – commerciale.
Sulle facciate sul cortile spiccano elementi architettonici dell’epoca, in particolare la caratteristica scala esterna in stile catalano, con cornice a risega.

Notizie storiche
Dal XVII secolo il palazzo è stato di proprietà della famiglia Gargallo, che ne ha presumibilmente promosso la ristrutturazione.

Affreschi
Ad opera di Ernesto Bellandi, che pochi anni prima aveva affrescato la volta del teatro Massimo di Catania.

Identificazione dell’opera
Denominazione: Palazzo Bufardeci
Luogo: via Maestranza, isola di Ortigia, Siracusa
Epoca: 1693
Corrente artistica di riferimento: Barocco

Descrizione
Dimora di origine nobiliare tra le più eleganti, impone la sua opulenza con l’ornato della ricchissima facciata a partitura simmetrica e la sequenza dei balconi sorretti da belle mensole figurate.
L’edificio, la cui facciata mostra una trama compositiva riferibile all’età del barocco ante 1693, non ha rivelato preesistenze più antiche certe. Ne parlano i Riveli del 1811-1835.
Varcato l’ingresso, in cui una soglia porta incisa la data del 1840, si stende un magnifico portico con quinte murarie ad altissimo impianto, di grande effetto scenografico.

Identificazione dell’opera
Denominazione: Tempio di Apollo
Luogo: isola di Ortigia (Siracusa)
Epoca: VI secolo a.C.
Corrente artistica di riferimento: arte greca arcaica (stile dorico)

Descrizione della pianta
Il tempio misura allo stilobate 55,36 x 21.47 metri, con una disposizione di 6 x 17 colonne di proporzione piuttosto tozza. Rappresenta, nell’occidente greco, il momento di passaggio tra il tempio a struttura lignea e quello completamente lapideo, con fronte esastilo ed un colonnato continuo lungo il perimetro che circonda il pronao e la cella divisa in tre navate con due colonnati interni, più snelli, posti a sostegno di una copertura a struttura lignea di difficile ricostruzione. Sul retro della cella si trovava un vano chiuso (adyton) tipico dei templi sicelioti.

Descrizione
I resti permetto di ricostruire l’aspetto originario del tempio, che appartiene al periodo protodorico e presenta incertezze costruttive e stilistiche, come l’eccessiva vicinanza delle colonne poste sui lati, le variazioni dell’intercolumnio, l’indifferenza alla corrispondenza tra triglifi e colonne ed aspetti arcaici come la forma planimetrica molto allungata. L’architrave risulta insolitamente alto, anche se alleggerito posteriormente formando una sezione a L.
Non mancano aspetti assolutamente sperimentali, come l’importanza dedicata al fronte orientale con doppio colonnato ed intercolumnio centrale più ampio e più in generale la ricerca più di un’enfasi rappresentativa che di un’armonia proporzionale.
La pioneristica costruzione fu un modello per l’affermarsi del tempio dorico periptero in Sicilia, rappresentando una sorta di prototipo locale, che affiancava aspetti legati a modelli della madrepatria con altri peculiari che si affermeranno solo in Magna Grecia, come la presenza dell’adyton, probabile sede dell’immagine sacra e centro compositivo dell’intera costruzione.

Inserimento urbanistico e territoriale
Antistante alla piazza Pancali nell’isola di Ortigia.

Notizie storiche
Tempio dorico più antico della Sicilia.
Subì diverse trasformazioni: fu chiesa bizantina, di cui si conservano la scalinata frontale e tracce di una porta mediana, e poi divenne moschea islamica. Successivamente si sovrappose agli edifici precedenti la chiesa normanna del Salvatore, che venne poi inglobata in una cinquecentesca caserma spagnola e in edifici privati, rimanendo comunque visibili alcuni elementi architettonici. Tali successive sovrapposizioni danneggiarono gravemente l’edificio, che fu riscoperto intorno al 1860 all’interno della caserma e venne riportato interamente alla luce grazie agli scavi effettuati da Paolo Orsi negli anni tra il 1938 e il 1942.
L’impresa di costruire un edificio con 42 colonne monolitiche, trasportate probabilmente via mare, dovette sembrare eccezionale agli stessi costruttori, vista l’insolita presenza sull’ultimo gradino del lato est di un’iscrizione dedicata ad Apollo, in cui il committente (o l’architetto) celebra l’impresa edificatoria, con un’enfasi che tradisce il carattere pioneristico della costruzione.

CASTELLO DI MANIACE

-Architetto: Il castello venne realizzato dall’architetto Riccardo da Lentini su incarico di Federico II
-Denominazione: Castello di Maniace
-Luogo (città): Siracusa- Isola di Ortigia
-Epoca: 1232-1240
-Corrente artistica di riferimento: Barocco
– Descrizione della pianta: Il Castello Svevo si presenta come una solida struttura di 51 metri per lato a pianta quadrata, una figura geometrica che permette il controllo visivo totale dell’interno e dell’esterno, con le sue quattro torri cilindriche agli angoli. Tutte le costruzioni di Federico II sono ispirate a forme geometriche, come ad esempio rettangolo, il quadrato e l’ottagono con chiaro riferimento agli insegnamenti di Vitruvio. Unico ambiente, la sala è determinata da 16 colonne libere che sorreggono 25 volte a crociera, da 4 semi colonne angolari e da 4 semi colonne a parete per ogni lato.
-Descrizione dell’esterno : Al centro troviamo il portale d’ingresso ad arco ogivale rivestito da marmi policromi e sormontato dallo stemma imperiale di Carlo V raffigurante un’aquila bicefala (a due teste), lastroni laterali in marmo, chiave di volta incompleta, lunetta e architrave mancante perché fu tranciata nella parte centrale. Il portale ha un’altezza di m 8,08, lo strombo misura in profondità m 1,45. Esso presenta ai due lati fasce di colonnine impostate su piccole basi multiple, le quali sorreggono piccoli capitelli a calice con le foglie uncinate. Al di sopra dei capitelli, sulle mensole che ne seguono l’andamento movimentato, spiccano quattro figure zoomorfe (due per lato), oggi imperfette, probabilmente leoni alati o ippogrifi. La collocazione nelle nicchie di queste due splendide opere d’arte ellenistiche rivela il profondo interesse che Federico II nutriva anche per la cultura classica, ma l’accostamento sia materiale che visivo con i leoni alati o ippogrifi, simboli per eccellenza di forza, ci induce a riflettere sulla complessa figura intellettuale dell’Imperatore ( ippogrifi e arieti: forza e leggiadria). Nei suoi vari elementi spicca la cornice finemente decorata con una successione di foglie. La forza dell’arco ogivale viene sottolineata dalla serie di tratti a zigzag nel frontone superiore. Il portale era forse munito della saracinesca e della porta. Troviamo poi due nicchie laterali sorrette da pedicelli, che ospitavano i due famosi arieti bronzei (uno di essi è oggi conservato al museo archeologico di Palermo, l’altro è andato perduto o distrutto nel 1848). Nei pressi della torre ovest si trova il Bagno della Regina. Vi si accede da una porta aperta nel paramento murario, scendendo poi da una scala intagliata nella viva roccia. Si narrava che fosse spazioso ed adorno di marmi, con sedili e vasche, nella realtà si tratta solo di un piccolo ambiente, ed è una fonte di approvvigionamento idrico del castello.
-Descrizione dell’interno: Il centro geometrico della sala ipostila era particolarmente enfatizzato da quattro gruppi di colonne realizzate, anziché in calcare, in marmo e granito. La diversità del materiale usato, oltre a creare un gradevole gioco cromatico aveva funzione di scaricare la somma delle spinte di tutte le crociere. Le colonne sono realizzate in pietra calcarea, hanno forma cilindrica, poggiano su basi poligonali e culminano con capitelli polistili ricoperti da uno strato di latte di calce. I capitelli presentano 2, 3 o 4 ordini di foglie ascendenti (di acanto, di palma, di vite) che si chiudono a crochet. Nel punto dove le foglie formano l’uncino troviamo scene agresti, figure umane, serpenti attorcigliati e frutti. Lungo i lati nord-ovest e sud-est della sala erano stati realizzati quattro grandi camini, due per lato, ma le cappe sono andate perdute. Riguardo la copertura della sala, al di sopra dei capitelli, dagli abachi si dipartono i costoloni a sezione quadrata con angoli smussati. Essi hanno struttura portante soltanto nei primi conci che si intersecano con la muratura delle volte. Le volte sono formate da conci in calcare bianco-giallastra e in pietra lavica. La tecnica impiegata vede la messa in opera dei conci a “spina-pesce” o a “zig-zag” saldati con la malta. Intorno al 1980 vennero scoperte le basi dei piedritti della campata centrale, invece di colonne cilindriche, come negli altri casi, si trattava di un tipo particolarmente elaborato e ricco di pilastri a fascio, ognuno composto da tre colonne marmoree. La grande sala del castello traeva luce da 15 finestre e dall’atrio centrale. Lungo la parete sud- ovest si nota un profondo dirottamento, relativo ad una finestra monumentale, unica nel castello, che guarda sul Porto Grande. Si ritiene che la sala ipostila così vasta e così come è strutturata, con le sue colonne libere e le sue volte, non potesse validamente sostenere l’enorme peso che un secondo livello a sviluppo integrale avrebbe comportato.
– Inserimento urbanistico e territoriale: Il Castello di Siracusa sorge sull’estrema punta orientale dell’Isola di Ortigia.
– Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale): In corrispondenza della torre sud e della torre est si osserva la presenza di 2 piccoli ambienti rettangolari con copertura a crociera: sono i vestiboli che introducono a due ambienti rettangolari, interpretati come servizi igienici, e alle scale elicoidali. Della torre nord non rimane alcun elemento originale. In quella ovest troviamo il vestibolo di accesso ad una delle scale che attualmente conducono al terrazzo. Si può accedere al terrazzo utilizzando anche la scala elicoidale all’interno della torre est. Nei pressi della torre ovest si trova il Bagno della Regina. Vi si accede da una porta aperta nel paramento murario, scendendo poi da una scala intagliata nella viva roccia. Si narrava che fosse spazioso ed adorno di marmi, con sedili e vasche, nella realtà si tratta solo di un piccolo ambiente ed è una fonte di approvvigionamento idrico del castello.
-Notizie storiche: Nel 1288 alloggiò con la famiglia il re Pietro III d’Aragona. Il maniero è anche chiamato Castello di Maniace, da Giorgio Maniace, un generale bizantino che nel 1038 riconquista per breve tempo la città degli arabi e porta in dono due arieti bronzei ellenistici, che poi vengono posti all’entrata del Castello stesso. Per quasi tutto il XV secolo il Castello fu una prigione. Alla fine del XVI secolo il Castello di Maniace diventa un punto fondamentale della cinta muraria di Ortigia. Il 5 novembre 1704 un’esplosione avvenuta nella polveriera sconvolge l’edificio, blocchi di calcare vengono lanciati nel raggio di diversi chilometri. Negli anni successivi si appresta la ricostruzione, che lascia intatte le parti rovinate dall’esplosione, mentre si creano tamponature per la realizzazione di magazzini. In età napoleonica il Castello rivive con funzioni militari e viene munito di bocche da cannone. Dopo l’unificazione d’Italia esso rimane una struttura militare. Ad oggi, dopo un lungo restauro, il monumento è tornato al pubblico utilizzo. Negli ultimi anni infatti, oltre all’apertura al pubblico, è stato sede di spettacoli dell’Ortigia Festival. Nonostante le massicce manomissioni effettuate nel XVI secolo, la monumentale fortezza conserva la struttura esterna duecentesca. Si volle che il Castello di Maniace fosse il segno della presenza dell’imperatore e dell’immanenza del suo potere. Tutto il castello è cinto da fortificazioni e per accedervi bisogna attraversare un ponte di pietra, fatto costruire da Carlo V nel XVI secolo, insieme alla cinta difensiva dell’isola, quando Siracusa venne trasformata in una roccaforte. La fortificazione era raggiungibile solo attraverso un ponte levatoio, colmato nel Cinquecento, che lo isolava dalla terraferma rendendolo praticamente inespugnabile. Riprendeva modelli di cultura araba e faceva parte di un sistema di castelli e torri distribuiti lungo le coste a difesa dell’isola.
-Restauri: Alla fine dell’800 furono eseguiti i primi interventi sul manufatto consistenti nella pulitura di alcune parti murarie e nella demolizione di strutture pericolanti. Agli inizi del 1900 vennero realizzati i primi interventi sul portale. Ma la prima indagine strettamente archeologica del Castello fu eseguita da Paolo Orsi nel 1926, il quale mirava all’individuazione delle strutture greche e romane citate dalle fonti, nonché di quelle bizantine, arabe e normanne.

FONTE ARETUSA

Millenaria sorgente di acqua dolce, essa sgorga da una grotta a pochi metri dal mare. Questa mitica fonte fu cantata da molti poeti, come Virgilio, Pindaro, Ovidio, D’Annunzio e molti altri, affascinati dalla leggenda di Aretusa e dal luogo incantevole. Persino l’Ammiraglio Nelson subì il fascino di questa celebre fonte, infatti, dopo aver rifornito di acqua la sua flotta navale, vinse la battaglia di Abukir contro la flotta navale francese nelle acque del Mediterraneo al largo della costa egiziana.
L’esistenza della fonte è legata ad una leggenda: la ninfa Aretusa, ancella della dea della caccia Artemide, fu vista dal dio fluviale Alfeo (figlio di Oceano) che se ne innamorò e tentò di sedurla contro la sua volontà. Per salvarsi Aretusa fuggì in Sicilia, dove Artemide la tramutò in una fonte nei pressi del porto di Siracusa, ad Ortigia (sacra ad Artemide). Zeus, commosso, mutò Alfeo in un fiume della Grecia, vicino ad Olimpia, permettendogli così di raggiungere Aretusa scorrendo sottoterra. Il mito d’Aretusa ha identificato storicamente i cittadini di Siracusa che vengono chiamati “i siracusani”, ma che in nome della ninfa, sono anche chiamati “aretusei”.
In realtà la Fonte Aretusa è un piccolo specchio d’acqua dolce alimentato da una piccola sorgente sotterranea, che a sua volta è collegata ad un’altra sorgente situata presso l’inizio del Lungomare Alfeo, nota come “Occhio della Zillica”, che secondo i coloni greci che fondarono la città era lo sbocco del sopracitato Fiume Alfeo, che immetteva le sue acque nella Fonte Aretusa. La Fonte Aretusa è stata sempre murata, per cui l’acqua rimase dolce, ma oggigiorno sotto il Passeggio Aretusa vi è un piccolo cunicolo che la collega al mare, per cui l’acqua della fonte è divenuta salmastra, creando così un interessante ecosistema acquatico all’interno della parte vecchia della città, con il conseguente popolamento di varie specie animali, tra cui molti volatili acquatici come anatre, gallinelle d’acqua e cigni, infatti la fonte viene anche chiamata “La Fontana delle Papere”, ma anche pesci d’acqua salmastra. Per quanto riguarda le specie viventi vegetali è opportuno notare la consistente presenza del papiro, pianta piuttosto importante per l’economia siracusana, perchè il suo gambo serve per fare una carta piuttosto pregiata utilizzata per manufatti venduti come souvenir turistici, ma che in epoca greca veniva utilizzata per scrivere. Dopo un violento terremoto avvenuto nel 1169, l’acqua che alimentava la fonte cessò e scomparve per un lungo periodo, poi ricomparve, ma con meno portata e non più dolce, ma salmastra. Anche a seguito del terribile terremoto del 1693, l’acqua diventò rossastra e scarsa. Recentemente vi fu un abbassamento ulteriore della portata dell’acqua, che gli esperti hanno attribuito ad un periodo di siccità, tant’è che dopo abbondanti stagioni di pioggia la portata è aumentata. Le acque della Fonte Aretusa sorgono direttamente nell’isola d’Ortigia senza nessun tipo di canalizzazione con la terra ferma. Gli storici ci hanno tramandano notizie dove segnalano che un tempo le acque della fonte erano dolcissime e non erano minimamente mischiate con quelle salate. Pertanto si poteva supporre che effettivamente il flusso d’acqua proveniva veramente da sotto il livello del mare. Le acque dell’Aretusa, come quelle del Ciane e dell’Anapo, hanno origine dalla gran massa pluviale assorbita dai Monti Iblei. Attraversando terreni calcarei, spesso fragili e permeabili, le acque s’incanalano sotto terra e ricompaiono in superfice appena incontrano un terreno roccioso poco permeabile. Su una parete della fonte una lapide ricorda i versi di Virgilio, un gruppo bronzeo dello scultore Poidomani, raffigurante Alfeo ed Aretusa, è collocato in uno spazio antistante la vasca. Una nota splendida è l’albero piantato nel 1700, un ficus detto proprio “ficus aretuseò” per ricordare ancora la ninfa bella e inaccessibile, che Cimone ed Eveneto raffigurarono nelle loro monete.

PALAZZO VERMEXIO

-Architetto: edificato dall’architetto Giovanni Vermexio
-Denominazione: Municipio – Palazzo Vermexio detto anche Palazzo del Senato
-Luogo (città): Siracusa – Isola di Ortigia
-Epoca: 1629-1633
-Corrente artistica di riferimento: Barocco
-Descrizione della pianta: pianta quadrata. Questo palazzo può ritenersi l’espressione più alta del geometrismo che anima tutte le realizzazioni di Giovanni Vermexio. Esso era, in origine, un cubo perfetto.
Descrizione dell’esterno: La facciata si presenta di forma quadrata solcata da sei paraste che nell’ordine inferiore si presentano a bugnato e sorreggono una ricca trabeazione, mentre nell’ordine superiore si presentano lisce. Il portale d’ingresso è incassato dentro la parete centrale della facciata, ai lati della quale vi si trovano due finestre sormontate da timpani semicircolari. Presso il portale d’ingresso, sovrastato da un mascherone grottesco, sono presenti due lampioni in ferro battuto e un piedistallo, in cui è posta la targa con cui si commemora l’iscrizione di Siracusa e Pantalica nei “Luoghi Patrimonio dell’Umanità” da parte dell’Unesco. In esso Vermexio, volendosi quasi “firmare”, scolpì nell’angolo sinistro un minuscolo geco o lucertola, appellativo conferito all’architetto a causa della sua rara magrezza ed altezza. Il primo piano è impostato su schemi classici, le grandi finestre timpanate, le paraste bugnate in stile dorico, la solenne trabeazione decorata con triglifi e metope. Le paraste ioniche scandiscono il prospetto del secondo livello con finestre alternate a nicchie destinate a contenere le statue dei reali di Spagna mai completate da Gregorio Tedeschi, a cui era stata affidata la decorazione scultorea del palazzo, egli infatti riuscì a portare a termine solo la grande aquila a due teste coronate, simbolo dell’impero spagnolo, che è sovrastata dal balcone centrale. L’ordine superiore, in stile barocco, è caratterizzato da una balconata racchiusa da una ringhiera in ferro battuto, sopra cui si affacciano tre finestroni, di cui quello centrale sormontato da un timpano spezzato, che reca al centro lo stemma dei Borboni, un’aquila con due teste, sotto la quale è posta la targa in cui si onoravano i Borboni di Spagna. Le due finestre laterali sono sormontate da timpani spezzati più piccoli, sopra cui è posto lo stemma araldico della città di Siracusa. Nella parete laterale le due finestre sono sormontate da timpani semicircolari. Tra le finestre vi sono delle nicchie inarcate, che in origine dovevano contenere i busti dei re borbonici vissuti fino ad allora e dovevano essere scolpite sempre da Gregorio Tedeschi, ma l’improvvisa morte dell’artista rese lo impossibile. La trabeazione si presenta arricchita da decorazioni geometriche scolpite con la tecnica del bassorilievo, chiudendo quindi la costruzione con un’abbondantissima decorazione con festoni che corrono tra i capitelli ed un cornicione fortemente aggettante. Le paraste, nonostante creino forti giochi plastici, danno per il loro verticalismo quel senso di leggerezza non avvisato nel primo ordine.
-Descrizione dell’interno: All’interno dell’atrio è presente la “Carrozza del Senato” , uno splendido carro settecentesco utilizzato dalle maggiori autorità della città aretusea per muoversi all’interno di essa, realizzata su modello delle berline austriache. Questa carrozza viene fatta sfilare ogni anno in occasione dei festeggiamenti in onore di Santa Lucia. L’interno del Palazzo presenta moderne stanze restaurate, ma anche locali rimasti tali e quali come la Sala del Sindaco, il cortile interno e l’atrio d’ingresso, che presenta una volta a botte e due eleganti portali laterali. Qui possiamo ammirare la targa in pietra iblea, su cui è riportata per intero la dichiarazione dell’Unesco con cui Siracusa e la Necropoli di Pantalica sono state dichiarate ufficialmente “Patrimonio dell’Umanità”.
– Inserimento urbanistico e territoriale: Occupa l’angolo nord-est di piazza Duomo, in un’area di grande importanza fin dall’età greca, infatti parti delle fondazioni ricadono sui resti di un tempio ionico della fine del VI secolo a.c.
-Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale): I sotterranei del palazzo hanno restituito i resti di un primitivo tempio in stile ionico. Sono superstiti i frammenti di un enorme capitello e la parte inferiore di una colonna, che ha la caratteristica di essere rivestita fino a una certa altezza da una fascia non scanalata, nella quale dovevano trovare posto dei bassorilievi, come alcuni grandi templi dell’Asia Minore. Secondo alcune ricerche il tempio in realtà non fu mai portato a termine.
– Notizie storiche: Detto anche Palazzo del Senato, fu edificato tra il 1629 e il 1633 dall’architetto Giovanni Vermexio, che ricevette dal governo della città l’incarico di sostituire l’antica sede della Camera Reginale di Siracusa. L’edificio quindi divenne il palazzo del Governo della città. Oggi ospita gli uffici del Sindaco e del municipio. Originariamente esso era un cubo perfetto, diviso a metà altezza da un lungo balcone che separa i due ordini, l’inferiore rinascimentale e il superiore barocco. L’artista in questa sua opera riuscì a fondere la nobiltà delle passate civiltà con lo sfarzo spagnolo mediante i timpani dei balconi, le cornici spezzate e sporgenti, nicchie, capitelli ornati di conchiglie e maschere. Il Tempio Ionico, la cui dedica rimane tuttora ignota, fu probabilmente un Athenaion, è uno dei rari esempi di questo ordine conservato in Occidente e risale alla seconda metà del VI secolo a.C.
Questo è da mettere in relazione con la cacciata dei Gamoroi da Siracusa intorno al 500 a.C., nonché per la sconfitta inflitta a Siracusa da Ippocrate di Gela. Gelone, giunto così al potere, abbandonò il progetto del tempio ionico, preferendo avviare i lavori per la costruzione dell’Athenaion dorico.
Il Palazzo fu anche adibito a teatro nel 1740, ma venne rimosso nel 1880.
-Restauri: Intorno agli anni 60 fu accorpato un nuovo fabbricato per ampliare gli uffici del municipio, così facendo è stato stravolto l’originario progetto, demolendo l’antica chiesetta di S. Sebastiano e la sede della Biblioteca dell’Arcivescovado, fondata nel 1780 dal Vescovo Alagona.

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MODICA

CHIESA DI S.PIETRO

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-Luogo (città):Modica, provincia di Ragusa.
-Epoca: 1697: (inizio costruzione)-1780 (completamento)
-Corrente artistica di riferimento: Barocco siciliano, Neoclassicismo.

Descrizione dell’esterno:

La facciata è una superficie piana resa elegante dalle lesene diamantate del primo ordine e a losanga del secondo ordine, dalla minuta decorazione del finestrone centrale, dalle volute di raccordo a motivi floreali, dalle statue sistemate sul primo ordine e nella cuspide. Una bella scalinata con le statue dei dodici Apostoli, chiamati dal popolo Santoni, conduce alla sobria ma maestosa facciata suddivisa in due ordini, e abbellita da quattro statue, raffiguranti San Cataldo, Santa Rosalia, San Pietro e la Madonna, che arricchiscono il secondo ordine, che è infine sormontato all’apice della facciata dalla scultura, in altorilievo, di un Gesù Cristo in trionfo.

Descrizione dell’interno:

Il valore estetico più rilevante dell’interno è dato dall’ampio respiro spaziale della navata centrale con volta a botte rischiarata da grandi finestre laterali e da delicati stucchi ottocenteschi; l’abside è resa monumentale dalle colonne binate con una impaginazione ancora seicentesca nel disegno, dagli altari incorniciati da colonne tortili e da tutte le opere di scultura, pittura, oreficeria conservate nella chiesa.

Descrizione della pianta:

La chiesa è divisa in tre navate da 14 colonne con capitello corinzio. le laterali sono occupate da cappellette.

Decorazioni pittoriche e scultoree

A partire dal pavimento, del 1864, con intarsi di marmo bianco, marmi policromi e pece nera, per finire con la volta, ricca di magnifichi affreschi, raffiguranti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, iniziati nel 1760 circa dal pittore locale Gian Battista Ragazzi con la collaborazione del figlio Stefano, e portati a termine intorno al 1780, probabilmente solo dal figlio.

-Madonna di Trapani

Posta nella cappella di destra, un’opera in marmo riferibile al sec. XVI: una madre che offre un frutto al Bambino che tiene in braccio, lo sguardo rivolto in avanti, il collo leggermente allungato, la bocca socchiusa e i capelli sciolti sulla veste a fiori. Un riferimento particolare va fatto all’oreficeria. L’urna reliquiaria in argento reca la data 1643. Anche se, per il momento, mancano le fonti, la data può essere accettata, tenendo conto dell’impianto “architettonico” e dell’iconografia dei dodici apostoli che sono rappresentati in altorilievo sui quattro lati in nicchie incorniciate da lesene con cariatidi.

-L’immacolata

Si trova nella nicchia sull’altare maggiore. è una statua policroma. La statua firmata e datata è resa in forme dinamiche dalle ricche vesti. Il volto è incorniciato da un fazzoletto che lascia liberi i lunghi capelli di Maria. Tra le vesti compare in basso la testa del serpente. Ai lati dell’Immacolata all’interno di due nicchie, le statue di San Pietro e San Paolo. Tutte le sculture sono opera di Pietro Padula un artista di indubbia qualità, napoletano, che le eseguì tra il 1773 e il 1775. Intorno agli anno ’80 del Settecento il pittore Giovan Battista Ragazzi affrescherà i riquadri della volta con scene e figure del Vecchio Testamento. Due interessanti tele secentesche anonime sono presenti all’interno della cappella Mazzara.

-Cappella Mazzara
La prima cappella della navata sinistra dedicata alla nobildonna che aveva lasciato per testamento parte del proprio patrimonio e delle rendite alla Chiesa di San Pietro. All’interno della cappella Mazzara e in alto sulla parete di fondo dell’abside è presente lo stemma gentilizio della Famiglia Mazzara composto da una mezzaluna e da una campana, all’interno della chiesa è inoltre riprodotto quasi ossessivamente il simbolo della chiesa di Roma con la tiara pontificia e le chiavi di San Pietro per ribadire l’antichità di questa architettura e soprattutto il legame con uno dei primi discepoli di San Pietro, il Santo Vescovo Marziano. Due interessanti tele secentesche della cappella Mazzara.

Inserimento urbanistico e territoriale:

Si pone come polo visivo lungo l’itinerario della via principale, contornata da palazzi e conventi, a ridosso del Castello dei Conti di Modica, che domina sull’altura. Per l’attuale struttura architettonica il terremoto del 1693 si pone come momento iniziale, così come lo è per buona parte dell’architettura tardobarocca del Val di Noto.

Notizie storiche e restauri: 

Furicostruita sulle stesse fondamenta della chiesa del Seicento. Dell’edificio seicentesco rimane, all’interno, la Cappella dell’Immacolata, attualmente sacrestia, dove è ancora leggibile la data 1620. La cappella è un vano quadrangolare con un’interessante copertura che rimanda a modelli costruttivi rinascimentali, analoghi a quelli della volta della cappella di San Mauro all’interno della Chiesa di Santa Maria di Betlem. L’origine, molto probabilmente, risale all’epoca di San Marziano, discepolo di San Pietro e primo vescovo di Siracusa. Si racconta che nella chiesa si conserva un blocco di calcare duro in forma di sedia vescovile chiamato Cattedra di San Marziano e che tale cattedra fu fatta seppellire dinanzi al fonte battesimale della chiesa. Il legame con San Marziano è confermato da un documento che si riferisce a un altare dedicato al Santo Vescovo nel 1480. La prima notizia relativa alla chiesa risale al 1308. I lavori di costruzione e decorazioni continueranno fino alla fine dell’Ottocento e oltre se si considera l’ultimo intervento della chiesa: la costruzione dell’organo, sistemato sopra il portale d’ingresso.

CHIESA DI S.GIORGIO

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-Architetto: Alessandro Cappellani Judica
-Luogo: Modica, Provincia di Ragusa, Sicilia.
-Epoca:  verosimilmente la sua prima edificazione sarebbe stata voluta direttamente dal Conte Ruggero d’Altavilla, a partire dalla definitiva cacciata degli Arabi dalla Sicilia, intorno al 1090.
San Giorgio fu eretta a Collegiata con bolla di Urbano VIII del 6 novembre 1630.
-Corrente artistica di riferimento: Barocco

Descrizione della pianta:

Ha pianta basilicale a croce latina divisa da cinque navate e tre absidi dopo il transetto.

Descrizione dell’esterno:

La facciata attuale – dalle sorprendenti analogie con la coeva Katholische Hofkirche di Dresda – fu realizzata modificando, forse anche con parziali demolizioni, quella secentesca preesistente, di cui non abbiamo documenti o disegni, ma che aveva resistito alla forza del terremoto.                                                                                                                                                                                   La cupola si innalza per 36 metri. Una scenografica scalinata di 164 gradini, disegnata per la parte sopra strada dal gesuita Francesco Di Marco nel 1814 e completata nel 1818, conduce ai cinque portali del tempio, che fanno da preludio alle cinque navate interne della chiesa.                                                                                                                                                                                     La parte della scalinata sotto il Corso San Giorgio fu progettata nel 1874 dall’architetto Alessandro Cappellani Judica e completata nel 1880.                                                                                       La prospettiva frontale di tutto l’insieme è arricchita da un giardino pensile e su più livelli, detto Orto del Piombo, costeggiato dalla scalinata monumentale, e compone una scenografia che ricorda Trinità dei Monti in Roma.

Descrizione dell’interno:

L’interno della chiesa è a cinque navate, con 22 colonne sormontate da capitelli corinzi. Sul pavimento dinanzi l’altare maggiore, nel 1895 il matematico Armando Perini disegnò una meridiana solare; il raggio di sole, che entra dal foro dello
gnomone posto in alto sulla destra, a mezzogiorno, segna sulla meridiana il mezzogiorno locale. 
All’estremo sinistro della meridiana, una lapide del pavimento contiene l’indicazione delle coordinate geografiche della chiesa, e dunque della stessa città di Modica.

Decorazioni pittoriche e sculture:

Fra le navate si possono ammirare: un grandioso organo con 4 tastiere, 80 registri e 3000 canne, perfettamente funzionante, costruito tra il 1885 e il 1888 dal bergamasco Casimiro Allieri;

-L’Assunta:

Un dipinto di scuola toscana del tardo-manierista fiorentino Filippo Paladini (1610);

– La Natività:

Una deliziosa pittura naif su legno di Carlo Cane, del Seicento;

-Il Martirio:

La tela secentesca(1671) di Sant’Ippolito firmata dal poco noto Cicalesius; una sta tua marmorea di scuola gaginiana;

-la Madonna della Neve:

Della bottega palermitana dei carraresi Mancini e Berrettaro del 1511.

-l’Arca Santa:

Poggia sull’altare in fondo ad una delle due navate di destra, chiamata Santa Cassa, opera in argento intarsiato costruita a Venezia nel XIV secolo, e donata alla Chiesa dai conti – mecenati della dinastia dei Chiaramonte.

Il polittico occupa tutta la parete di fondo dell’abside: attribuito, inizialmente, all’Alibrandi, un pittore dei primi del Cinquecento, fu, in seguito a un restauro dell’opera, attribuito a Bernardino Niger, un pittore forse di origine greca. Il più grande polittico di tradizione medievale-rinascimentale presente in Sicilia è composto da nove riquadri più il lunettone, sulla sommità, dove è rappresentato Dio Padre. I nove riquadri sono disposti in tre ordini. Nel primo ordine dal basso sono rappresentati San Giorgio e San Martino, i due santi cavalieri e guerrieri, che hanno una devozione particolarmente viva in tutta la Contea di Modica.

Inserimento urbanistico e territotiale:

La singolarità dell’opera, oltre alla sua intrinseca bellezza, è data dalla sua collocazione urbanistica, al centro di una città costruita a ripiani irregolari collegati da scalinate e salite tortuose con ampi spazi che, ancora nel Settecento, dovevano essere destinati a giardini e orti terrazzati. La fisionomia attuale della chiesa è il risultato di più secoli di trasformazioni, integrazioni e completamenti con gli interventi più consistenti che si situano tra il XVII e il XIX secolo.

Notizie storiche:

Chiesa dedicata ai Santi Ippolito e Giorgio. La prima fonte che parla dell’esistenza della chiesa è una bolla pontificia dal 1150 di papa Eugenio III, con la quale la chiesa veniva posta sotto la tutela del Monastero di Mileto in Calabria. Secondo la tradizione la chiesa fu fondata dal Conte Ruggero e, in ricordo di tale avvenimento, all’interno, sopra il portale principale, è esposta l’armatura del Conte Ruggero d’Altavilla, il condottiero dei Normanni e il leggendario fondatore di San Giorgio.

Restauri:

Mai furono sospese le attività liturgiche nel Duomo, salvo qualche mese dopo il tremendo terremoto del 1693 che ne aveva fatto crollare i tetti, ripristinati i quali già nel 1696, alla visita pastorale del vescovo di Siracusa, la chiesa era nel pieno esercizio delle sue funzioni. Nel 1643 il cedimento di un pilastro del transetto e la preoccupazione del crollo degli archi vicini porta a un radicale intervento nella chiesa. Dopo aver consultato vari architetti ed “esperti di fabbrica” provenienti da varie città del Regno, fu deciso di smantellare il precedente edificio e di dare l’incarico per un nuovo “modello” e “pianta”.

 

PIAZZA DEL MUNICIPIO

Vero e proprio cardine della città, questa piazza, posta all’incrocio tra c.so Umberto I e v. Marchesa Tedeschi, è sormontata dalla scoscesa rupe del castello, su cui spicca una settecentesca torre con orologio.
Sulla destra della piazza c’è l’ex convento dei Domenicani oggi Municipio. Vicino si trova la Chiesa di S. Domenico (XIV sec.), distrutta dal terremoto del 1613 e ricostruita nel 1678, ma risparmiata dal sisma del 1693. L’interno, ad una navata unica con volata a botte, è ornato da pregevoli stucchi settecenteschi.

 

C.SO S.UMBERTO I

Corso Umberto I è fiancheggiato da una serie di episodi architettonici che testimoniano la crescente importanza che l’asse ha avuto nel corso dei secoli.
Si evidenziano partendo da piazza del Municipio:
l’ex Monastero delle Benedettine, dal 1866 sede del tribunale e dal 2005 Museo Civico Archeologico “F.L. Belgiorno”; l’esposizione, organizzata secondo moderni criteri museografici, ospita reperti rinvenuti sul suolo modicano databili dal Paleolitico al Medioevo (notevole l’Eracle di Cafeo, una statuetta bronzea risalente al III sec. a.C.);

La Chiesa di S. Pietro di stile barocco, ricostruita dopo il terremoto del 1693 con una scenografica scalinata arricchita dalle statue dei dodici Apostoli; l’interno è a tre navate divise da 14 colonne corinzie;

Il Palazzo Tedeschi del XVIII sec. con balconi retti da belle mensole figurate;

La seicentesca Chiesa di S. Maria del Soccorso, dalla sobria facciata convessa e annessa al coevo ex Convento dei Gesuiti;

L’ottocentesco Teatro Garibaldi;

Il Palazzo Manenti del XVIII sec. con belle ornamentazioni barocche nei balconi del piano superiore, sostenuti da mensole figurate.

 

CHIESA DEL CARMINE

La chiesa di Santa Maria dell’Annunziata del Carmelo, detta “del Carmine” (fine XIII – XIV sec.), è stata fondata dai Padri carmelitani; è uno dei pochi monumenti che resistette alla violenza del terremoto del 1693. E infatti il prospetto, che aveva in parte superato anche i terremoti del 1542 e 1613, è arricchito da un bel portale risalente alla fine del Trecento, già dichiarato Monumento Nazionale all’inizio del XX secolo.
Il portale è ad arco a sesto acuto, leggermente strombato, definito da fasci di colonne laterali e decorato con capitelli con motivi floreali.
Il portale è sormontato da un rosone francescano con dodici raggi, uno dei più integri e preziosi dell’intera isola, il tutto in stile tardo-gotico chiaramontano.                                                             Sulla sinistra saldato alla facciata si apre l’originario campanile a tre ordini, interrotti da fasce trasversali con le rituali feritoie.
Le parti superiori della facciata e del campanile sono comunque sovrastrutture barocche settecentesche post-terremoto.
L’interno è, attualmente, ad una navata: la volta interna è a crociera ogivale con costoloni e con un fregio scolpito sulla chiave di volta; sulle pareti sono visibili i resti di un affresco: La Trinità, il volto di Maria con il Bambino, i resti di un panorama di città, su un’altra parete sono visibili i calzari di alcuni personaggi che il tempo non ha risparmiato.                                                                               A lato dell’altare, si conserva una cappella tardo-gotica, anch’essa databile alla fine del XIII secolo, riportata alla luce e restaurata di recente. Presenta essa tracce di affreschi murali, ed il suo pavimento ricopre una cripta funeraria, visibile da una botola, mentre una parete di tamponamento del Settecento ha tenuto nascosto per tre secoli l’arco d’ingresso alla cappella, trapuntato come un merletto.
Tamponato da un muro, un altro arco di accesso ad una delle antiche cappelle laterali è visibile sul muro di destra non appena si entra in chiesa.
La Chiesa del Carmine custodisce al suo interno opere di alto valore artistico.
Sulla destra, all’interno dell’atrio, sulla destra, è esposta una Madonna del latte (secolo XIII): una statua in cartapesta, originale come tema e da considerare una rarità anche per la datazione, essendo coeva all’edificazione della chiesa.
L’altro capolavoro degno di nota è il gruppo scultoreo dell’Annunciazione. Il gruppo, in marmo, vede l’Angelo in ginocchio davanti a Maria. Li separa un leggio coperto da un drappo e con, sopra, un libro aperto. La Vergine, giovanissima, ha i tratti delicati e pensosi e indossa un manto con ampie pieghe. Sul piedistallo della Vergine sono scolpite tre teste di uomini di mezza età con barbe e lunghi capelli. L’impaginazione è rinascimentale ed è possibile collocarla cronologicamente nella prima metà del Cinquecento. L’autore dovrebbe essere Antonello Gagini. Il gruppo scultoreo fu consegnato all’ordine Carmelitano nel 1532.                                                                                                                                                                                                                                              La Pala di Sant’Alberto (il santo carmelitano a cui era intitolata la Provincia della Sicilia Orientale, mentre la Sicilia Occidentale era intitolata a Sant’Angelo) è uno dei dipinti più importanti tra quelli presenti a Modica. Si tratta di un dipinto su tavola raffigurante il Santo con un libro e un giglio in una mano mentre nell’altra tiene un crocifisso. La pala che, molto probabilmente, faceva parte di un polittico smembrato e disperso, risale ai primi del Cinquecento e fu realizzata sicuramente da un Maestro. Alcuni critici d’arte hanno avanzato l’ipotesi che l’autore potrebbe essere il pittore lombardo Cesare Da Sesto, allievo di Leonardo da Vinci, che sostando per un periodo a Messina, avrebbe realizzato quest’opera nel suo percorso siciliano (1513-1517)
Girando lo sguardo all’indietro, nella cantoria collocata sopra l’ingresso della chiesa, si ammira un delizioso piccolo organo monumentale in legno, il più antico fra quelli ancora funzionanti a Modica, datato 1774.
Risale al 2006, invece, durante lavori edili di sgombero, il ritrovamento da parte di un privato, proprietario di un locale attiguo alla chiesa sul lato di via Pellico, di un altro portale gotico di fine Duecento, che costituiva l’ingresso dalla navata ad una delle cappelle laterali, poi andata svenduta, quindi adattata a civile abitazione, dopo i danni causati dal terremoto del 1693. I lavori di recupero – supervisionati dalla Soprintendenza alle Belle Arti – avvisata della scoperta dallo stesso proprietario – hanno portato anche al rinvenimento di una cripta sotterranea, colma di ossa, probabili reliquie dei monaci carmelitani.                                                                                                                                                                                                                                          

Convento del Carmine

L’edificazione avvenne a seguire la Chiesa omonima, fra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, per ospitare i frati Carmelitani giunti in Sicilia già da qualche decennio. Il convento era dotato di 23 celle, ed è stato sottoposto a varie ristrutturazioni ed ampliamenti da sovra elevazione nel corso dei secoli, soprattutto dopo i danni del terremoto del 1693, e successivamente, quando fu requisito dal Regno d’Italia nel 1861 per farne sede della Caserma dei Carabinieri. È in questa occasione che vengono a scomparire gli orti antistanti il Convento, per essere trasformati nella pubblica piazza del Carmine, intitolata nel secolo successivo a Giacomo Matteotti. Il prospetto è stato interamente rifatto, in stile neo-rinascimentale-liberty. Trasferitasi l’Arma dei Carabinieri in altra sede intorno al 2000, sono stati pensati, progettati, ed in questo inizio d’anno 2012 quasi conclusi, degli importanti lavori di restauro e consolidamento, che hanno portato a fortuiti rinvenimenti delle strutture portanti medievali, sono state scrostate le mura, e riportati alla luce i pavimenti in acciottolato del XIII-XIV secolo, gli archi ogivali gotici che immettono da un ambiente conventuale ad un altro, delle finestrelle in stile svevo chiara montano del XIII secolo. Il pavimento di un ambiente, confinante con l’attigua ex Chiesa di San Giovanni Battista dei Cavalieri Gerosolimitani, sembra, per il suo disegno geometrico, con quasi certezza appartenere ad una vecchia strada laterale al Convento stesso inglobata successivamente all’interno della struttura conventuale.

Concento dei Mercedari

Il Convento dei Mercedari del sec. XVIII è annesso al Santuario della Madonna delle Grazie, fu un ex convento dei Padri Mercedari e fu adibito a lazzaretto durante la peste del 1709: ha ospitato la Biblioteca Comunale ed il Museo Civico. Oggi è ancora in fase di restauro; presto l’edificio avrà sede il museo etnografico “Serafino Amabile Guastella”.

 

CHIESA DI S.MARIA DI BETLEM

-Epoca: XIV secolo
-Corrente artistica di riferimento: gotico chiaramontano

Descrizione della pianta:

impianto a 3 navate

Descrizione dell’esterno:

La facciata, a due ordini, scanditi da una cornice marcapiano. è il risultato di due fasi costruttive, il primo ordine è da collocare tra il secondo Cinquecento e il primo Seicento, mentre il secondo ordine fu realizzato nell’Ottocento. Lungo il prospetto laterale sinistro si trova una lunetta in calcare, la Lunetta del Berlon (sec. XV-XVI), pregevole bassorilievo di ignoti artisti locali raffigurante una Adorazione dei Pastori, probabile arcosolio del portale della Chiesa di S. Maria di Berlon. Sono visibili tracce dei colori con i quali, originariamente, doveva essere dipinto il bassorilievo. Nella parte sottostante è presente una scritta in vernacolare in caratteri gotici che fa riferimento a una chiesa di Berlon. Forse storpiatura di Betlem. La lunetta è testimonianza di una produzione locale con caratteri popolareggianti di estrema semplicità.

Descrizione dell’interno e decorazioni pittoriche e scultoree:

All’interno una delle testimonianza artistiche tra tardogotico e Rinascimento più significative dell’intero territorio è la Cappella Cabrera, che si trova in fondo alla navata di destra. L’ambiente è di forma quadrata, il basamento della cupola è di forma ottagonale, definito da pennacchi ai quattro angoli, la cupola termina con un lucernario. L’ampio e alto portale, che occupa tutta la parete d’ingresso alla cappella, è a sesto acuto, ma sia il portale che l’intera cappella non possono essere riferiti alla cultura tardogotica tout-court. La cappella, che in passato veniva definita arabo-normanna, deve, alla luce dei più recenti studi, essere annoverata tra le testimonianze artistiche del primo Cinquecento con integrazioni e interazione di elementi classici, manieristici e gotici. Nel ricco portale si sviluppano cinque tra semicolonne e pilastrini ed eleganti snelle colonne con motivi a zig-zag e floreali. I capitelli sono decorati con maschere e con motivi a grottesche cinquecentesche. Scudi e simboli sacri sono scolpiti nelle chiavi d’arco: partendo dal basso si trovano una testa di leone, una lira, un trofeo d’armi, uno scudo con una stella a sette punte, un putto alato, un agnello dentro una conchiglia sormontato da una corona. La Chiesa di santa Maria di Betlem possiede uno dei più bei presepi dell’intera provicia di Ragusa. Si tratta di un presepe monumentale con statue in terracotta a grandezza naturale, realizzato nel 1882 da Bongiovanni Vaccaro, un maestro di Caltagirone.

Inserimento urbanistico e territoriale:

La chiesa di Santa Maria di Betlem è una delle tre antiche collegiate (dal 1645) della città e la sua presenza nel sito risale al XIV secolo.

Notizie storiche:

La chiesa fu costruita al posto o per l’integrazione di quattro piccole chiese (San Bartolomeo, Sant’Antonio, Santa Maria di Berlon, San Mauro) e l’aspetto attuale si presenta come il risultato di interventi che vanno dal Cinquecento all’Ottocento. La Cappella è intitolata ai Cabrera più per tradizione che per una reale committenza della famiglia, anche se, in realtà, si può affermare che la breve presenza siciliana di Federico Henriquez e Anna Cabrera coincide con la prima ondata di classicismo rinascimentale che aveva investito l’isola.

 

Letteratura – Camilleri

LA GITA A TINDARI

Romanzo pubblicato nel 2000 dalla casa editrice Sellerio.
Dall’opera è stato tratto uno sceneggiato televisivo trasmesso da Rai Uno nel 2001 con l’attore Luca Zingaretti nella parte del commissario Montalbano.

Struttura: Il commissario Montalbano, investigatore di polizia palermitano, avvia le indagini riguardanti il caso dell’assassinio di un ragazzo, Nenè Sanfilippo, e contemporaneamente della misteriosa scomparsa di una coppia di anziani coniugi, i signori Griffo. L’unica connessione tra i due casi consiste nella residenza delle persone, che abitavano nello stesso palazzo. Questi due eventi misteriosi rompono l’equilibrio iniziale.
I coniugi Griffo erano stati visti l’ultima volta in pubblico durante una loro gita a Tindari, in seguito alla quale non si erano più avute notizie di loro.
Montalbano prosegue con le sue indagini, nel corso delle quali vengono ritrovati i corpi dei due pensionati che, dopo essere stati assassinati, erano stati rinchiusi in un cascinale, al quale era poi stato appiccato il fuoco. In questo modo, se tutto fosse andato secondo i piani degli assassini, dei due corpi non sarebbe rimasta traccia e nessuno avrebbe mai saputo niente. L’intervento tempestivo dei vigili del fuoco però ha invece permesso il recupero e l’identificazione dei cadaveri.
Successivamente il vecchio boss mafioso don Balduccio Sinagra, uno dei più forti boss locali, contatta Montalbano e fa in modo che egli arrivi nel luogo dove il boss ha fatto assassinare il nipote Japichinu Sinagra. Così facendo, il vecchio boss ha la speranza che il commissario attribuisca ingenuamente la responsabilità del delitto ai nemici di Sinagra. Montalbano intuisce però che si tratta di una trappola e riesce a non caderci e a non rimanere coinvolto.
Unendo gli indizi raccolti a dei a files informatici e cassette modificate appartenuti a Nenè Sanfilippo, il commissario Montalbano riesce poi finalmente a ricostruire la vicenda per intero e a creare le premesse per la ricomposizione dell’equilibrio. Proprio a Vigàta era situata una delle basi di una nuova mafia internazionale dedita al contrabbando di organi. Questa organizzazione, ramificata in tutto il mondo, operava per lo più tramite Internet. La base di Vigàta era in una casupola di piccole dimensioni di proprietà dei signori Griffo, che affittavano la casa all’organizzazione mafiosa. Sanfilippo, esperto di computer, lavorava per l’organizzazione, così come ne era entrato a far parte anche Japichinu Sinagra, diventando un rivale e un pericolo per il nonno, che lo in seguito lo fa eliminare.
Il dottor Ingrò era a suo modo coinvolto, in quanto costretto dalla mafia a operare trapianti illegali per ripagare i suoi debiti con l’organizzazione.
Un elemento sospetto si aggiunge poi alle indagini del commissario: Vania Ingrò, moglie del chirurgo Ingrò e amante di Nenè Safilippo, improvvisamente lascia la lussuosa casa del marito per tornare nel suo povero paese d’origine in Romania.
La moglie Vania era infatti all’oscuro di tutta la faccenda e nel momento in cui viene alla luce la sua relazione con Sanfilippo la donna costituisce una bomba ad orologeria per la mafia. Diventa quindi necessario smantellare la base di Vigàta e far sparire i coinvolti. Vengono dunque eliminati i Griffo e Sanfilippo, mentre Vania viene allontanata per non far ricadere i sospetti sul chirurgo e su una sua eventuale vendetta contro la moglie e il suo amante.
Montalbano riesce quindi ad ingannare il chirurgo e a farlo confessare davanti al questore. Temendo la possibilità di eventuali interventi della mafia per nascondere la confessione o ritorsioni contro lo stesso Montalbano, il commissario ha poi cura di tenere il suo nome fuori dal caso e di far pubblicare la notizia della confessione da un suo amico giornalista.
Il tempo: il romanzo è ambientato alla fine degli anni Novanta; la vicenda è emozionante perché tutto succede nell’arco di qualche settimana.
I luoghi: Montalbano lavora a Vigàta, un paesino siciliano non molto lontano da Montereale e da Marinella, dove egli abita, ma un paese piuttosto distante dalle grandi città di Trapani e Messina e dal santuario di Tindari.
I personaggi
Protagonista: Salvo Montalbano è il commissario di Vigata, dotato di lucida capacità di giudizio su fatti e persone. Egli è un uomo sulla cinquantina, onesto, non corrotto dai politici locali e sempre pronto ad aiutare i deboli. Montalbano è un anticonformista che non ama le regole, non viene mai descritto fisicamente. Uomo solitario e indipendente, ama il nuoto e il mare. Con i suoi collaboratori è posato, a volte nervoso e scorbutico, altre volte è malinconico. Tuttavia si riscontra in lui una certa ritrosità nei confronti della tecnologia e della modernità.
Antagonisti: la nuova mafia internazionale;
Oppositori: il dottor Ingrò un famoso chirurgo con la mania della collezione dei quadri molto costosi; a suo modo coinvolto in questa storia, in quanto costretto dalla mafia a operare trapianti illegali per ripagare i suoi debiti con l’organizzazione; Don Balduccio Sinagra è il vecchio boss della mafia palermitana, “uno scheletro vestito”, che non ha perduto il carisma benché la nuova mafia faccia oscillare la sua autorità.
Destinatari (cioè coloro su cui sono concentrate le indagini del protagonista): Nenè Sanfilippo è  il giovane assassinato, amante dei computer e donne, ragazzo sulla ventina con codino e orecchino; i coniugi Griffo, l’anziana coppia di pensionati uccisi; Japichinu Sinagra, il giovane che faceva parte dell’organizzazione del commercio di organi e che incominciava a dar fastidio al nonno, che lo farà assassinare.
Aiutanti: Livia è la fidanzata di Montalbano, ma abita a Boccadasse in Liguria. E’ fedele e paziente e non viene svelato alcun particolare fisico. Si sente spesso troppo trascurata rispetto alle indagini, che l’amato affronta con sveltezza.
Catarella lavora al centralino del commissariato. E’ una persona piuttosto ignorante e confusa, ma dotata di un arguto senso pratico.
Fazio, un uomo fedele, ma talvolta lento e intrappolato nella sua mente logica e rigorosa. Fa parte della squadra di Montalbano, insieme a Gallo o “Galluzzo” e Mimì.
Mimì Augello, il vice di Montalbano, dai risvolti, complessi e delicati casi, ma indispensabile confidente per Montalbano e punto fermo della squadra. S’innamora in questa storia di Beba.
Nicolò Zito, l’amico giornalista di Montalbano, che riceve sempre da lui gli scoop, a condizione che dica quello che lui vuole.
Comparse: Beatrice chiamata anche Beba, una bella ragazza alta, bionda e snella. E’ la rappresentante di casalinghi e guida che era sul pullman della gita a Tindari. S’innamora di Mimì.
Il Questore Bonetti-Alderighi, sebbene usi un tono rigido nei dialoghi, non ha mai intimorito Montalbano.
L’avvocato Guttadauro, legale prediletto dai mafiosi.
Ingrid Sjostrom è l’amica svedese di Montalbano; è una donna molto bella, considerata di facili costumi in quanto straniera, leale e sincera.
Vanja Titulescu, trentunenne rumena sposata con il ricco chirurgo Ingrò, tradisce il marito mediante la relazione pericolosa con Nenè Sanfilippo.
Linguaggio: Lo stile e le tecniche narrative di Camilleri sono uniche, non manca mai di inserire nella narrazione molti termini in dialetto siciliano, rendendo così il racconto più confacente all’ambientazione in cui si svolge la vicenda.
Narratore: Il narratore è esterno, ma il punto di vista è interno alla narrazione.
Citazione (utilizzabile per il video): La collina Ciuccàfa si distingueva per due particolarità. La prima consisteva nell’appresentarsi completamente calva e priva di un pur minimo filo d’erba verde. Mai su quella terra un àrbolo ce l’aveva fatta a crescere e non era arrinisciùto a pigliarci manco uno stocco di saggina, una troffa di chiapparina, una macchia di spinasanta. C’era sì un ciuffo d’àrboli che circondava la casa, ma erano stati fatti trapiantare già adulti da don Balduccio per avere tanticchia di refrigerio. E per scansare che siccassero e morissero, si era fatto venire camionate e camionate di terra speciale. La seconda particolarità era che, cizzion fatta della casa dei Sinagra, non si vedevano altre abitazioni, casupole o ville che fossero, da qualsiasi lata si taliassero i fianchi della collina. Si notava solo la serpeggiante acchianata della larga strata asfaltata, lunga un tre chilometri, che don Balduccio si era fatta fare, come diceva, a spisi so’. Non c’erano altre abitazioni non perché i Sinagra si erano accattati tutta quanta la collina, ma per altra, e più sottile, ragione.
Contestualizzazione: il tema centrale è la lotta alla criminalità; in questo libro, come in altri libri di Camilleri, si affronta il problema della mafia ovvero l’eterna “questione meridionale”.

 

 

MONTALBANO SI RIFIUTA

Racconto tratto dal libro “Racconti di Montalbano” (storie scelte da Camilleri)

Struttura: Inizialmente viene presentata la situazione al tempo presente, ma subito si torna al passato con un flashback; il commissario Salvo Montalbano nel pomeriggio sta eseguendo un interrogatorio, nella tarda serata va a cena e, seppur interrotto ancor prima di gustare l’antipasto, riesce a tornare alla trattoria per finire il pasto. Si sta dirigendo verso casa in auto quando di sfuggita nota un’altra auto con soggetti sospetti che pare stiano violentando una donna, a prima vista sembra ignorarli, ma subito dopo torna sulle loro tracce, che lo portano fino ad una casa su una collina. Qui si interrompe la situazione di pace che caratterizzava la giornata lavorativa del commissario. Di nascosto Montalbano riesce a seguire i due uomini fin dentro alla casa, dove trova una scena di grande orrore: il corpo morto e sbrindellato della donna. Con abili parole Camilleri riesce a dare grande suspance a queste scene: Salvo, scendendo le scale, ode lo scambio di opinioni tra i due uomini che stanno esplicitamente mangiando delle parti del corpo della donna, nauseato esce dalla casa e dopo aver cosparso l’ingresso di benzina decide di abbandonare il piano e chiama lo scrittore del racconto. Pare che ritorni una situazione di relativa pace, almeno per il lettore, quando Montalbano rimprovera al telefono lo scrittore e decide lui stesso di mettere fine al racconto, riattaccando il telefono.

Fabula e intreccio: La fabula inizia con la presentazione della scena, di sera, ma già nella prima pagina c’è un flashback con il quale racconta i fatti avvenuti nel pomeriggio. Da lì in poi i fatti procedono in ordine cronologico.

Sequenze:
Sequenze narrative alternate a brevissime sequenze dialogiche, talvolta composte da una sola battuta.
Sequenza narrativa: presentazione della scena, il commissario è in auto.
Flashback
Sequenza narrativa: il commissario sta facendo un interrogatorio e si prende una pausa, lasciando il lavoro a Fazio, un collega.
Sequenza dialogica: brevissimo scambio di battute tra Montalbano e Fazio.
Sequenza narrativa: il commissario torna al suo interrogatorio, quando arriva Augello; Montalbano si fa sostituire e va a cenare.
Sequenza dialogica: Gallo interrompe la cena e richiama Montalbano in commissariato per comunicargli delle novità.
Sequenza dialogica: dialogo Augello – Montalbano.
Sequenza narrativa: il commissario torna alla sua cena e terminatala si dirige verso casa a bordo della sua auto.
Sequenza narrativa: Montalbano dall’auto nota una scena di violenza, senza farsi notare segue i delinquenti in macchina fino ad una casa isolata.
Sequenza narrativa: il commissario di soppiatto ispeziona la casa.
Sequenza narrativa: il commissario trova una ragazza morta.
Sequenza dialogica: i due assassini dal piano di sotto si scambiano opinioni sul cibo che stanno mangiando, è evidente che si tratta di parti di corpo della ragazza.
Sequenza narrativa: Montalbano esce dalla casa, dalla sua auto prende una scheda telefonica e, raggiunta una cabina, chiama.
Sequenza dialogica: Montalbano chiama colui che sta scrivendo la storia proprio in quel momento, esprime il suo disappunto per come si sta evolvendo la vicenda e chiude il racconto riattaccando il telefono.
Il racconto è costituito prevalentemente da sequenze narrative, ma ci sono anche brevi sequenze dialogiche.
Inesistenti quelle riflessive, appena accennate quelle delle descrizioni, tuttavia non abbastanza approfondite da determinare una sequenza.

Il narratore
E’ un narratore esterno, in terza persona ed è onnisciente poiché racconta i fatti attraverso un flashback. Il racconto è molto oggettivo, le scene più crude sono descritte con grande freddezza e distacco. I fatti sono raccontati al passato.

Il tempo: Non vi sono riferimenti temporali riguardo agli anni, probabilmente si tratta della epoca contemporanea di Camilleri (‘900).
Il racconto si conclude in una giornata, vi sono riferimenti a orari precisi (otto di mattina, cinque di pomeriggio, dieci di sera, mezzanotte spaccata..).

I luoghi: La vicenda si svolge in Sicilia in tre luoghi principali: il commissariato di Montalbano a Vigata, la trattoria e la casa sulla collina. La casa sulla collina è in campagna, a due ore di strada dalla casa di Montalbano, certamente scelto dagli assassini per la sua posizione isolata e nascosta.
Vi è un riferimento alla città di Marinella, dove abita il commissario.

I personaggi
Ruoli: personaggi principali: il commissario Salvo Montalbano, Augello, i rapitori della donna.
Protagonista: Montalbano, commissario dall’animo freddo e risoluto non si lascia sconvolgere dai fatti che accadono nella casa sulla collina. Commissario paziente, passa la giornata ad interrogare un uomo che non intende rilasciare dichiarazioni e si difende sempre con la medesima frase. Il commissario non dà mai tregua al suo lavoro, che sembra appartenergli appieno, tant’è che, ligio al dovere, segue i due criminali, seppur la sua sfiancante giornata lavorativa sia appena finita.
Antagonista: non vi è un antagonista ben definito, ma dato che il commissario è una figura rappresentativa della giustizia possiamo considerare antagonisti coloro che si oppongono alla legge: il vecchio che si ostina a non rilasciare dichiarazioni, riguardo lo stupro per cui è indagato, e i due assassini, che senza alcuno scrupolo massacrano e cucinano una giovane donna.

Le forme del discorso: I pochi discorsi presenti nel racconto sono diretti, non vi è alcuna presenza di discorsi indiretti. Il discorso diretto è stato probabilmente scelto per dare più velocità e fluidità al racconto.

Linguaggio: Il linguaggio è piuttosto semplice, Camilleri inserisce termini dialettali siciliani, che comunque non rendono difficoltosa la lettura. Le frasi sono piuttosto brevi, la sintassi è semplice, la lettura risulta veloce.

Contestualizzazione della novella
Il racconto lo troviamo nel libro “Racconti di Montalbano”, libro nel quale sono inserite storie scelte dall’autore Andrea Camilleri. Tutta la serie del commissario Montalabano è di genere poliziesco, l’autore ambienta i racconti nella cittadina di Vigata, sulla costa sicula, luogo dove il commissario svolge le sue funzioni di investigatore. Più in generale tutti i racconti sono ambientati in Sicilia e in qualche racconto troviamo anche descrizioni accurate dei luoghi dove si svolgono le vicende.

Citazione (utilizzabile per il video):
Quella nottata di fine aprile era proprio proprio come una volta era parsa a Giacomo Leopardi che se la stava a godere: dolce e chiara e senza vento. Il commissario Montalbano guidava la sua macchina a lento a lento, beandosi della friscanzana mentre se ne tornava nella sua casa di Marinella.[…]

 

AGRIGENTO

TEMPIO DI DEMETRA 

 

Identificazione dell’opera:

Architetto: Sconosciuto

Denominazione: Tempio di Demetra.

Luogo (città): Valle dei templi, Agrigento

Epoca: 480-470 a.C.

Corrente artistica di riferimento: Architettura greca classica, ordine dorico.

Descrizione della pianta: Questo tempio offre un interessante esempio di edificio distilo in antis, ovvero privo del colonnato esterno e costituito da una semplice cella preceduta da un pronao con due colonne. Della struttura originaria si conservano il basamento rettangolare, di m 30×13 c.a, ancora in parte visibile, i muri esterni della cella e quelli divisori tra cella e pronao.

Descrizione dell’interno:Rimangono il basamento (m.30,20 x 13,30) fatto di conci arenarei disposti a graticola, i muri esterni della cella e quello che la separava dal pronao. Essi posano sopra una base di conci messi diritti e sono formati con diverse file di pezzi rettangolari sistemati armonicamente. La cella è avvolta dalle strutture, che hanno occultato la porta della piccola chiesa medioevale di S. Biagio costruita in epoca normanna, con lineamenti semplici, da cui la contrada ha preso il nome.

Descrizione dell’esterno: Della facciata piatta della chiesa di S. Biagio si notano in maniera più rilevante il portale e un bellissimo rosone a due finestre. Caratteristica è la stradina, che conduce alla chiesa, ricavata tra le rocce. Di particolare rilevanza è l’abside posteriore della chiesa, da dove è possibile vedere le basi e parti delle mura del tempio greco.

Decorazioni pittoriche e scultoree (affreschi, tavole, tele, rilievi, statue…): E’ superstite qualche frammento della cornice di trabeazione, insieme ai resti del contornamento in pietra del tetto; sue bellissime gronde e teste leonine sono conservate nel Museo Nazionale.

Inserimento urbanistico e territoriale: Nella parte orientale della città, sul fianco del ripido pendio con cui si conclude la Rupe Atenea nella valle del fiume Akragas (oggi torrente San Biagio), si trova il tempio di Demetra.

Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale): Il tempio di Demetra fa parte di un’area archeologica caratterizzata dall’eccezionale stato di conservazione e da una serie di importanti templi dorici del periodo ellenico. Corrisponde all’antica Akragas, monumentale nucleo originario della città di Agrigento.

Notizie storiche:Parte dell’elevato del tempio venne incorporata nella chiesa medievale di San Biagio di età normanna.

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TEMPIO DI ERCOLE

 

Identificazione dell’opera:

Architetto: Sconosciuto.

Denominazione: Tempio di Ercole o Eracle (dal nome romano dell’eroe)

Luogo (città): Valle dei templi, Agrigento

Epoca: fine VI sec. a.C.

Corrente artistica di riferimento: architettura greca arcaica, stile dorico.

Descrizione della pianta: Sorge su un basamento a  vespaio, l’ampia piattaforma rettangolare allungata, montata su quattro gradoni, un triplice quadrato che occupa una superficie di mq.2.056,89.

Descrizione dell’esterno: Uno dei più belli dell’antichità, è ora ridotto in povere vestigia. Raggiungeva un’altezza di m. 16 circa, ha una peristasi colonne stilobate, cui si accede per un crepidoma di tre gradini. Oggi rimaste erette otto colonne. Presenta un fronte con sei colonne doriche(esastilo) e colonnati laterali con 15 colonne. Sulla fronte orientale sono i resti del grande altare del tempio.

Descrizione dell’interno: All’interno della peristasi si trovava una lunga cella munita di pronao ed opistodomo entrambi in antis, i cui resti sembrano indicare la distruzione dell’edificio a causa di un sisma. Nei resti dell’edificio si riconosce la presenza di scalette interne per l’ispezione del tetto poste nei piloni tra pronao e cella, che diventeranno una presenza tipica nei templi agrigentini. Le colonne, molto alte, sono munite di capitelli assai espansi, con profonda gola tra fusto ed echino.

Decorazioni pittoriche e scultoree (affreschi, tavole, tele, rilievi, statue…): A coronamento del tetto la sima in pietra calcarea era decorata con teste di leone.

Notizie storiche: La cronologia tradizionalmente accettata del tempio lo identifica come il più arcaico dei templi agrigentini, risalente agli ultimi anni del VI secolo a.C. Tale datazione è basata sui caratteri stilistici e soprattutto su proporzioni, numero delle colonne, profilo della colonna e del capitello. Tuttavia alcuni riconducono il tempio all’attività di Terone, poiché presenterebbe innovazioni rispetto alla prassi architettonica del VI secolo a.C. Si potrebbe in tal caso trattare del tempio di Atena ricordato da Polieno  in relazione all’attività edificatoria di Terone, in corrispondenza della sua presa del potere.

Anche i resti della trabeazione costituiscono un problema di datazione, poiché conosciamo due tipi di sime laterali con gronda a testa leonina, una prima – meno conservata dell’altra – databile al 470-60 a.C. e una seconda della metà circa del V secolo a.C.: probabilmente la prima gronda è quella originaria e la seconda una sostituzione più tarda di pochi decenni (per motivi a noi sconosciuti), e dunque il tempio si data, nella sua fondazione, agli anni anteriori alla battaglia di Himera; il completamento sarebbe da collocare un decennio dopo o poco più.

Restauri: L’edificio subì restauri d’età romana ed in particolare la tripartizione della cella, che potrebbe indicare una dedicazione a varie divinità.

Nel XX secolo interventi di restauro hanno reso possibile la ricostruzione per anastilosi di nove delle colonne di un fronte laterale sud-ovest, anche se privo di trabeazione e di alcuni capitelli. Delle 38 colonne (6 sui frontoni e 15 sui lati lunghi contando anche quelle degli angoli), solo 9, rialzate nel 1922, grazie alla munificenza del capitano inglese Alexander Hardcastle, si stagliano, col loro aspetto imponente, in mezzo a tutte le rovine.

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TEMPIO DI GIOVE

Identificazione dell’opera: 

Denominazione: Tempio di Giove Olimpico

Luogo (città) : Agrigento

Epoca:  costruito nei primi decenni del IV secolo a.C

Corrente artistica di riferimento:  arte greca classica

Materiale:  calcarenite locale.

Descrizione della pianta:  Ampia pianta rettangolare preceduta da un pronao sequito da un opistodromo.

I resti monumentali oggi visibili sono ciò che rimane a seguito delle distruzioni di epoca antica e recente.

Descrizione dell’esterno:  Sulla pianta rettangolare si ergeva un basamento (crepidoma) di cinque gradini; al posto del solito colonnato aperto (peristasi) vi era un muro di recinzione scandito da semicolonne doriche (forma pseudoperiptera), sette sui lati brevi e quattordici su quelli lunghi, a cui corrispondevano, nella parte interna, pilastri rettangolari.

Descrizione dell’interno:  Internamente il tempio era diviso in tre vani: quello centrale (cella) preceduto da un atrio di ingresso (pronao) e seguito da un vano posteriore (opistodomo), delimitati da muri perimetrali scanditi da dodici pilastri sporgenti all’interno.

Decorazioni pittoriche e scultoree:  Oggi possiamo ancora vedere elementi della decorazione architettonica della trabeazione del tempio, come i frammenti del frontone scolpito che, secondo la descrizione di Diodoro Siculo, era decorato su un lato da una Gigantomachia e sull’altro dalla Presa di Troia.

Una delle caratteristiche più singolari del tempio sono i telamoni alti circa 8 metri, gigantesche figure mitologiche maschili che sostenevano la trabeazione.

Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale) Dinnanzi alla fronte orientale del tempio, ad una distanza di circa 50 metri, sono visibili i resti di un altare monumentale con scalinata che conduceva alla piattaforma per i sacrifici.

Notizie storiche:  Il tempio di Zeus o Giove Olimpico è uno dei pochi edifici sacri agrigentini di cui è sicura l’attribuzione alla divinità ed era il più grande tempio dorico dell’Occidente.

L’edificio è noto da due fonti antiche. Polibio (II sec. a.C.) ne parla nella sua opera storica e lo descrive come incompiuto e Diodoro Siculo (I sec. a.C.) fornisce una descrizione dettagliata del tempio. Sulla base di queste fonti la realizzazione del tempio viene collocata dopo la vittoriosa battaglia sui Cartaginesi ad Himera nel 480 a.C.

Le più recenti indagini mettono in discussione questa datazione poichè il progetto del tempio di Giove Olimpico si discosta da quelli del tempio di Atena a Siracusa e del tempio di Himera, entrambi realizzati dopo l’accordo di pace del 480 a.C. Non è escluso, pertanto, che la progettazione del tempio e l’inizio dei lavori per la sua realizzazione vadano collocati in un periodo precedente e si possano mettere in relazione con l’inizio della tirannia di Terone (488-472 a.C.).

Restauri:  Numerosi scavi e studi per ricostruire l’aspetto originario del tempio sono stati eseguiti a partire dall’inizio del 1800, sino alle recenti indagini affidate dal Parco all’Istituto Archeologico Germanico di Roma (2000-2006).

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TEMPIO DI GIUNONE

Identificazione dell’opera: 

Denominazione:Tempio di Giunone

Luogo (città) : Agrigento

Epoca:  costruito nella seconda metà del V secolo a.C

Corrente artistica di riferimento: arte classica greca

Materiale:  calcarenite locale.

Descrizione della pianta:  Pianta rettangolare, tempio dorico periptero con 6 colonne sui lati corti (esastilo) preceduto da un pronao seguito da un opistodomo.

Descrizione dell’esterno:  L’edificio poggia su un basamento di quattro gradini e presenta sei colonne sui lati brevi e tredici sui lati lunghi.

Descrizione dell’interno:  L’interno era suddiviso in tre vani: quello centrale (cella) era preceduto da un atrio di ingresso (pronao) e seguito da un vano posteriore (opistodomo), questi ultimi avevano due colonne antistanti; ai lati della porta della cella si trovavano le scale di accesso al tetto. Il basamento con tre gradini sul fondo della cella fu aggiunto in epoca successiva.

Eventuali adiacenze (torri, campanili, giardini, edifici monastici, ecc. che formano con l’edificio considerato un unico complesso monumentale) Sul lato est si trovano i resti dell’altare monumentale preceduto da una scalinata di dieci gradini che conduceva al piano dove si celebravano i sacrifici.

Inserimento territoriale:  sorge in posizione dominante presso l’estremità orientale della Collina dei Templi.

Notizie storiche:  La superficie di alcuni blocchi arrossati mostra i segni dell’incendio forse riconducibile alla distruzione di Akragas compiuta dai Cartaginesi nel 406 a.C.

A Ovest del tempio si trova la Porta III – di cui oggi rimane ben poco a causa della frana di parte del costone roccioso – originariamente aperta in una rientranza obliqua rispetto alla linea delle fortificazioni e percorsa da una carreggiata stradale ancora visibile. Il sistema difensivo risalente alla fine del VI sec. a.C. fu rinforzato durante il IV sec. a.C. dalla costruzione, a nord-est della porta e del tempio, di un imponente torrione di cui oggi rimane parte del crollo dell’elevato.

Il tempio viene  attribuito a Giunone per un’erronea interpretazione di un brano di un autore latino.

Restauri:  Numerosi restauri sono stati eseguiti a partire dalla fine del XVIII secolo, quando furono risollevate le colonne del lato nord, sino agli ultimi interventi di tipo statico e conservativo delle superfici lapidee effettuati dal Parco (Sicilia 2000-2006).

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IL TEMPIO DEI DIOSCURI

 

Luogo: Valle dei Templi, Agrigento.

Epoca: alcuni lo fanno risalire ad un periodo compreso fra gli anni 480 e 460 a.C., altri pensano che sia una costruzione del IV o III secolo a.C.

Corrente artistica di riferimento: architettura greca classica di stile dorico.

Descrizione della pianta: presenta una pianta simile a quella degli altri templi agrigentini con sei colonne sui lati brevi (quindi il tempio è esastilo) e tredici sui lati lunghi.

La cella probabilmente si ritiene fosse aperta al centro (ipetra).

Descrizione dell’esterno: La sua alta piattaforma è montata su 3 gradoni estesi all’interno perimetro. Delle 34 colonne solo 4 si stagliano in mezzo a tutte quelle rovine; altre 4 colonne delimitano la cella nei due lati corti.

Le colonne sono formate da tre rocchi tufacei, con un fascio di 20 scanalature a spigolo vivo, raggiungono un’altezza di m 5,27 ed hanno un diametro di m 1,10.

Il fregio del tempio, tagliato orizzontalmente, ci dà una strana sensazione: è come se la parte superiore della trabeazione sia stata “posata” successivamente sulla parte inferiore.

Decorazioni pittoriche e scultoree:

Sul vano delle metope molto probabilmente vi erano degli affreschi, che rappresentavano le varie fasi del culto alla divinità a cui il tempio era dedicato.

Il tempio mostra, inoltre, una decorazione fogliata ricca e varia.

Lo spigolo esistente mostra un rosone, simbolo dell’isola di Rodi. Ai 4 lati del tetto si notano esemplari di grondaia dalla forma a testa di leone con la lingua rossa. Il ruolo della figura del leone, di cui questo tempio come quello di Demetra e di Ercole si avvaleva, era soprattutto quello di spaventare le potenze del male e di allontanarle. Le maschere leonine avevano dipinte in turchese la criniera, in giallo il muso e in rosso la lingua, che serviva da canale di scorrimento. Alle teste di leone si alternavano le antefisse a forma di palmette, simbolo del trionfo, alternativamente di colore rosso e turchese. Una smagliante policromia, sovrapposta allo stucco, indispensabile per proteggere il materiale, completava la decorazione.

Inserimento urbanistico e territoriale: il tempio si trova nel terrazzo mediano della Valle del templi, di cui è visibile la ricostruzione dell’angolo nord-ovest eseguita nel 1836 dalla Commissione delle antichità della Sicilia.

Adiacenze: nelle immediate vicinanze del suo lato meridionale, nel 1932, furono scoperte le rovine di un altro tempio ad esso parallelo. Tale scoperta si è rivelata molto importante ai fini dell’individuazione delle divinità alle quali i due templi erano dedicati. A tale proposito è da tenere presente il fatto che il tempio in questione è situato al centro di un importantissimo santuario dedicato alle divinità ctonie (Demetra, Persefone e Dioniso) e che, molto probabilmente, ad esse era dedicato. L’ipotesi più attendibile, anche perché confortata da molte prove, è quella che il tempio fosse dedicato a Persefone e a suo figlio Dioniso. Attorno ai templi, a giustificare tale ipotesi, Marconi trovò nel 1932 un vaso pertinente al culto orgiastico di Dioniso.

Notizie storiche: Il tempio di Castore e Polluce (i Dioscuri) è quello che più rappresenta la sigla di Agrigento artistica. Castore e Polluce erano due gemelli nati dall’unione di Leda, regina di Sparta, con Giove. Castore era mortale, mentre Polluce era immortale. La leggenda vuole che quando Castore morì, Polluce chiese al padre di renderlo mortale per poter riunirsi al fratello. Zeus lo esaudì e fece in modo che i due tornassero alla vita alternativamente, un giorno ciascuno.  Furono inoltre posti nella costellazione dei Gemelli dove, quando una stella muore, ne nasce un’altra.

Restauri: può darsi che il Duca di Serradifalco, che nell’Ottocento riedificò tre colonne (alle quali ne fu aggiunta poi una quarta per motivi di stabilità), pur di arrivare ad una soluzione, abbia impegnato elementi architettonici pertinenti a fasi diverse, come i gocciolatoi per l’acqua piovana a forma di testa di leone che risalgono ad epoca ellenistica.

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IL TEMPIO DELLA CONCORDIA

 

Luogo: Valle dei Templi, Agrigento.

Epoca: 440-430 a.C.

Corrente artistica di riferimento: architettura greca classica di stile dorico.

Descrizione dell’esterno: poggia su un basamento di quattro gradini e presenta sei colonne sui lati brevi e tredici sui lati lunghi, ogni colonna, dell’altezza di m. 6,75, è costituita da 4 tamburi, con un fascio di 20 scanalature a spigolo vivo. Sopra le colonne vi sono i capitelli con due elementi quali l’echino e l’abaco. La trabeazione è costituita da due elementi, ossia dall’architrave e dal fregio con metope e triglifi. Infine abbiamo il frontone con il timpano, il frontone triangolare viene ornato con degli acrotèri, nei lati lungi del tempio vengono sistemate delle grondaie a testa di leone.

Interno: L’interno era suddiviso in tre vani: quello centrale (cella) era preceduto da un atrio di ingresso (pronao) e seguito da un vano posteriore (opistodomo), questi ultimi avevano due colonne antistanti; ai lati della porta della cella si trovano le scale di accesso al tetto. Le dodici arcate ricavate nei muri della cella e le tombe scavate nel pavimento sono dovute alla trasformazione del tempio in basilica cristiana, grazie alla quale l’edificio deve il suo ottimo stato di conservazione. Infatti, secondo la tradizione, verso la fine del VI sec. d.C. il vescovo Gregorio si insediò nel tempio e lo consacrò ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, dopo aver scacciato i demoni pagani Eber e Raps che vi risiedevano.

Decorazioni pittoriche e scultoree: L’interno e l’esterno del tempio erano ricoperti da un rivestimento di stucco bianco sottolineato da elementi policromi.

Inserimento urbanistico e territoriale: Sulla roccia affiorante a ovest del tempio si estendeva la necropoli paleocristiana (III-VI sec. d.C.) correlata alla trasformazione dell’edificio in basilica, comprendente un vasto settore di sepolture all’aperto (sub divo) scavate nel banco roccioso e un’ampia catacomba comunitaria con vari ipogei destinati a nuclei familiari.

Adiacenze:  a est del tempio sono visibili una serie di tombe ad arcosolio ricavate nello spessore del costone roccioso, che aveva costituito la base delle fortificazioni di età greca.

Notizie storiche: Il tempio deve il suo nome allo storico Fazello (1490 – 1570), il quale rinvenne un’iscrizione latina dedicata alla Concordia dagli Agrigentini  nelle vicinanze, non avente, invero, alcun rapporto con il tempio. Nel 597 il tempio fu trasformato in basilica cristiana dal vescovo Gregorio dedicata ai Santi Pietro e Paolo, grazie a questo episodio il tempio è giunto sino ai nostri giorni in ottimo stato di conservazione. Dopo che furono abbattuti due idoli pagani Eber e Raps, la Chiesa fu poi consacrata a S.Gregorio delle Rape.

Restauri: I primi studi e lavori di scavo avvennero negli ultimi decenni del XVIII sotto i Borboni ad opera di Gabriele Lancellotto Castelli principe di Torremuzza, l’allora responsabile della tutela dei beni culturali siciliani, ma l’opera di recupero e restauro sistematica nella valle dei Templi è cominciata solo dopo la prima guerra mondiale.

I più recenti lavori di restauro sono terminati nel 2006.

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Letteratura – Maraini

DACIA MARAINI

 

BAGHERIA

Romanzopubblicato nel 1993 dalla casa editrice Rizzoli.

Struttura: La famiglia Maraini, trasferitasi in Giappone nel 1938 proprio per lasciare l’Italia fascista, nel 1943 fu internata in un campo di concentramento, dal quale uscì solo nel 1946 (rottura dell’equilibrio). Tornati in Italia, Dacia e la sua famiglia si stabiliscono a Bagheria, devastata dalla guerra, con case che sembrano reggersi solo perché si appoggiano le une alle altre, alternate a palazzi baronali e strade che a momenti entrano nei vigneti (ricerca dell’equilibrio con il rientro in Sicilia). L’infanzia a Bagheria trascorre tra il ricordo ricorrente degli anni vissuti nel campo di concentramento, dove si combatteva la fame e la morte era ormai diventata una cugina, e la vita nella dépendance di villa Valguarnera, una ex-stalla, dalla quale erano state ricavate tre stanzette con un bagno grande quanto una cabina di mare e con l’odore del pollaio sotto la finestra, uno spazio era molto piccolo per una famiglia di cinque persone.

Se prima questo piccolo paese si era salvato dalla mano profanatrice dell’uomo, possedeva ancora i suoi gelsi e gli altri alberi da frutto, col tempo Bagheria è rimasta sopraffatta dai palazzi di cemento, dalla crudeltà della mafia, rovinata dalla politica blasfema che la Maraini attacca fortemente (impossibilità di ricreare un equilibrio).

Fabula e intreccio: Il racconto (la fabula) intreccia gli eventi con flash-back, salti temporali, analisi dettagliate di certi periodi e sintesi di altri. Si assiste ad un flusso di coscienza (stream of consciousness in lingua inglese), che consiste nella libera rappresentazione dei pensieri di una persona così come compaiono nella mente, prima di essere riorganizzati logicamente in frasi. Il flusso di coscienza viene realizzato tramite il monologo interiore, che fa emergere in primo piano l’individuo, con i suoi conflitti interiori e, in generale, le sue emozioni e sentimenti, passioni e sensazioni

Il narratore: E’ interno (narra in prima persona), per l’autrice Bagheria è un mondo, è un formicolio di persone, di personaggi che vengono fuori piano piano dalla memoria.

Il tempo: la storia si svolge dall’epoca della seconda guerra mondiale all’epoca contemporanea.

I luoghi: Bagheria e la Sicilia; il Giappone.

Personaggi: I personaggi principali sono Dacia e la sua famiglia: la mamma, Topazia Alliata; il padre, Fosco Maraini, che l’avvicina alla scrittura.

I personaggi secondari sono i nonni, Enrico e Sonia, e le zie Felicita (che la Maraini paragona alla scrittrice statunitense Gertrude Stein) e Saretta.

Il linguaggio: Il romanzo è scritto con un linguaggio semplice, comprensibile, talvolta arricchito di espressioni dialettali siciliane per descrivere meglio la società, come il gelo di mellone, che era il tipico gelato di Bagheria, oppure parca, oppure sciacquatunazzu che significa bello. Il linguaggio è arricchito di molte descrizioni, metafore e similitudini; tra le metafore, ricordiamo un sorriso propiziatorio verso un mondo adulto offuscato le cui divinità sembravano essersi scatenate alla mia nascita per giocare pericolosamente col mio futuro; tra le similitudini ricordiamo invece il paragone degli anziani, gli anziani sembravano chiusi come frutti di mare ormai morti e rinsecchiti dentro le conchiglie preziose in cui avevano creduto di potere conservare in eterno le loro perle semplicemente chiudendo le valve dentate.

Contestualizzazione: L’autrice racconta la sua infanzia, il passato che l’ha tanto segnata. In questo romanzo Dacia Maraini cerca il filo conduttore della sua vita, dei suoi parenti, dei quali non aveva mai voluto sapere nulla, della sua vecchia abitazione, recupera la sua appartenenza, seppure parziale, a quel mondo siciliano contadino e paesano fatto di ulivi, di mare, di gelsomini. Bagheria per la scrittrice è fonte di amore e di dolore, poiché ella vi ha passato parte della sua vita insieme alla famiglia e vi è perciò affezionata, ma allo stesso modo ha scoperto molti aspetti di quel mondo ingiusto, al quale porta un irremovibile rancore. Non mancano le critiche sullo stato del paese al giorno d’oggi. L’autrice riscontra un profondo cambiamento tra il paese della sua infanzia e il paese dopo parecchi anni, esprimendo una visione molto critica del dopoguerra in Sicilia.

Questo romanzo si può collocare nella tradizione novecentesca, durante la quale questo genere tende a normalizzarsi; recupera alcuni aspetti della struttura ottocentesca, come l’importanza della trama e dell’azione, l’impianto realistico e contemporaneamente riprende alcune delle soluzioni sperimentali che la narrativa d’avanguardia aveva elaborato, come le tecniche surreali, il monologo interiore e la problematicità e pluralità di prospettive della narrazione. Questo tipo di romanzo tende a una misura sempre mobile, varia e originale fra oggettività narrativa e analisi interiore, realismo e surrealismo, norma e infrazione.

 

Citazioni (utilizzabili per il video):

 Parlare della Sicilia significa aprire una porta rimasta sprangata. Una porta che avevo talmente bene mimetizzata con rampicanti e intrichi di foglie da dimenticare che ci fosse mai stata; un muro, uno spessore chiuso, impenetrabile. Poi una mano, una mano che non mi conoscevo, che è cresciuta da una manica scucita e dimenticata, una mano ardimentosa e piena di curiosità, ha cominciato a spingere quella porta strappando le ragnatele e le radici abbarbicate.

…conoscevo troppo bene le arroganze e la crudeltà della Mafi,a che sono state proprio le grandi famiglie aristocratiche siciliane a fare prosperare, perché facessero giustizia per conto loro presso i contadini, disinteressandosi dei metodi che questi campieri usavano in nome loro, chiudendo gli occhi sugli abusi, sulle torture, sulle prepotenze infinite che venivano fatte sotto il loro naso, ma fuori dal raggio delicato dei loro occhi.

 

 

LA LUNGA VITA DI MARIANNA UCRìA

Romanzo (1990) – Premio Campiello 1990

Struttura: La situazione iniziale presenta Marianna come una bambina di famiglia nobile, destinata, come le altre donne di famiglia, a sposarsi con un pretendente di alto lignaggio e ad avere figli quali eredi del casato oppure a farsi monaca. Tuttavia qualcosa impedisce che Marianna, anche se bella ed intelligente, possa fare un buon matrimonio: la piccola diventa sordomuta in seguito ad un terribile trauma (la violenza da parte di uno zio, che rompe l’equilibrio) e a nulla vale il tentativo paterno di sottoporla ad un nuovo shock, ovvero assistere ad una esecuzione a morte per impiccagione, per indurla a tornare a parlare. Marianna tuttavia nella sua innocenza di bambina censura il trauma subìto e lo rimuove per anni dalla propria coscienza.

A soli 13 anni la famiglia Ucrìa destina la figlia al matrimonio proprio con lo zio carnefice, dal quale ha cinque figli. Marianna si trova così a subire le necessità familiari e i doveri coniugali con una ferrea capacità di sopportazione e, non potendo palare, comunica con tutti attraverso la scrittura e si immerge con crescente passione nella lettura dei libri, diventando una donna colta, dalla mentalità aperta e dallo spiccato senso critico. Solo da adulta Marianna prende dolorosamente coscienza della causa del proprio handicap e questa nuova consapevolezza le permette di capire meglio la propria identità.

Marianna riuscirà a ricomporre delle precarie fasi di equilibrio immergendosi in un amore disperato per un uomo molto più giovane di lei, Saro, o compiacendosi per conversazioni di alto livello intellettuale con il pretore di Palermo Giacomo Camaléo. Tuttavia la società aristocratica siciliana del tempo e le pressioni della famiglia non le consentono di vivere con libertà le proprie passioni ed ella trova una relativa serenità solo staccandosi dalla Sicilia e dall’amore impossibile per Saro, per condurre una vita errabonda per l’Italia (ricomposizione dell’equilibrio).

Fabula e intreccio: La storia è narrata in ordine cronologico a grandi linee, dall’infanzia alla piena maturità di Marianna; l’intreccio pertanto si allinea alla fabula, tuttavia posticipa la rivelazione del suo trauma infantile e lo introduce solo ad un punto avanzato del racconto, per creare suspance e mistero sul mutismo della protagonista.

Sequenze: Essendo Marianna sordomuta, scarse sono le sequenze dialogiche mediate attraverso il biglietti scritti da lei. Ci sono invece sequenze descrittive , narrative e soprattutto riflessive in cui emergono i pensieri della donna.

Narratore: Il narratore è esterno e utilizza nel racconto la terza persona, tuttavia il suo punto di vista ha una focalizzazioneinterna, perché vede il mondo con gli occhi di Marianna Ucrìa e non anticipa la conoscenza degli eventi, fino a che non è lei stessa a scoprirli. Oltretutto Marianna ha il dono particolare di far propri i pensieri di altre persone che le stanno vicino, quasi come se avesse un particolare dono di conoscenza: pertanto, anche a dispetto delle apparenze e delle comunicazioni verbali, ella coglie anche i pensieri più intimi e scomodi dei suoi interlocutori.

Tempo: L’epoca della storia è la prima metà del ‘700 e la narrazione dura 40 anni, da quando Marianna ha 5 anni a quando ne ha 45. Ci sono ellissi, ovvero salti temporali anche di anni, oltre ad analisi dettagliate di situazioni significative ai fini del racconto circoscritte nel tempo. Non ci sono mai anticipazioni sul futuro, am non mancano dei flash-back nel passato: è determinante quello che porta Marianna adulta a ricordare la violenza infantile.

Luoghi: La storia si svolge tra la Villa Ucrìa di Bagheria, i possedimenti terrieri di famiglia in campagna e vari luoghi di Palermo (il Palazzo Ucrìa in via Alloro, la Vicarìa, Piazza Marina teatro delle esecuzioni e degli autodafè, la cripta dei Cappuccini e il manicomio di S. Giovanni dei Lebbrosi). Solo nel finale Marianna risale la penisola sostando a Napoli e a Roma.

L’ambientazione in Sicilia è autobiografica, visto che è la terra in cui affondano le radici familiari della scrittrice. Inoltre, mentre il ‘700 è in Europa il secolo dei lumi , Palermo vive nell’arretratezza e nell’oscurantismo, dominata da una nobiltà ormai in declino.

Personaggi

Ruoli

Personaggi principali: Marianna, il padre, il marito-zio Pietro.

Personaggi secondari: la madre, i fratelli Signoretto, Carlo e Geraldo, le sorelle Agata e Fiammetta, i figli Giuseppa, Felice, Manina, Signoretto e Mariano, la cuoca Innocenza, la serva Fila, Saro e la moglie Peppinedda, il pretore Giacomo Camaleo.

Comparse: il giovane condannato a morte, i vari dipendenti della famiglia Ucrìa.

Funzioni

Protagonista: Marianna Ucrìa

La sua menomazione, anziché essere un impedimento, è una risorsa che le da la forza di elevarsi al di sopra della mediocrità che la circonda. Marianna, muta, scrive molto, legge e affina gli altri sensi, diventando una donna colt grazie alla sua ricca biblioteca. S’interessa anche di filosofia e medita sul pensiero di Hume, aprendosi anche alle nuove idee illuministe. Ella conosce solo da donna matura un vero amore-passione e se ne lascia coinvolgere, per quanto poi prevalga in lei il senso del dovere.

Marianna con la sua menomazione rappresenta il ruolo della donna siciliana del XVIII sec., che non può ascoltare e prendere coscienza di ciò che accade e non può intervenire nei discorsi e nelle decisioni più importanti. Tuttavia ella non si arrende e cerca di vincere i propri limiti. Rimasta vedova, ella riesce a guidare la famiglia, a condurre l’amministrazione delle proprietà terriere, visitandole di persona. Inoltre si distingue dalle altre donne dell’epoca per la sua cultura, il suo coraggio, la sua disponibilità a viaggiare.

Marianna è l’unico personaggio veramente dinamico, capace di crescere intellettualmente, di diventare intraprendente, di concedersi delle libertà che danno scandalo.

Antagonista: Pietro, il marito-zio, un uomo arcigno e chiuso, incapace d’amore verso chiunque, refrattario al dialogo, marito-padrone che fa subire alla propria moglie ogni rapporto come una violenza, interessato solo allla storia di famiglia e alla continuità dinastica: è il tipico nobile ottuso, ignorante e conservatore.

Oppositori:

  • Il padre, in apparenza un aiutante, in realtà è un carnefice che conosce la tragedia dello stupro della propria bambina, la nasconde e peggiora la situazione dando Marianna in sposa ad un mostro; tuttavia egli prova forse qualche senso di colpa verso l’ingenua Marianna, che pure l’ammira, e la ricompensa con una generosa eredità.
  • La madre, donna indolente e dipendente dal tabacco nonché da sostanze oppiacee, è incapace di amore materno e di protezione verso i propri figli.
  • Il fratello Signoretto, primogenito ed erede degli Ucrìa, è simile al padre e diventa senatore.
  • Il fratello Carlo, monaco senza vocazione, uomo pingue, vizioso e propenso al piacere, oltre che rinomato studioso di manoscritti antichi, è l’involontario tramite per la presa di coscienza di Marianna del proprio passato.
  • Il fratello Geraldo, destinato alla carriera militare, è un uomo ambizioso, donnaiolo, freddo.
  • La sorella monaca Fiammetta è sempre pronta ad esprimere giudizi pungenti.
  • Il figlio Mariano, l’unico erede maschi sopravvissuto, da bambino è oggetto dell’affetto di Marianna, ma poi crescendo la critica per il suo comportamento troppo scandaloso; egli è un uomo arrogante ed interessato solo al patrimonio.

Aiutanti:

  • La cuoca Innocenza, una sana ed energica donna del popolo
  • La cameriera Fila, una creatura fragile e apparentemente indifesa, anche se nel è capace di un raptus omicida nei confronti del fratello Saro, della cognata e del nipotino per gelosia.
  • La sorella Agata, da bambina nota per la sua bellezza, ma poi distrutta da troppe gravidanze.
  • La figlia Manina, dolce e sensibile, sottomessa ai genitori e portatrice di pace tra i fratelli, con un forte spirito materno, anche lei sposa bambina a 12 anni.
  • La figlia Giuseppa, dapprima ostile al matrimonio e poi capace di lottare per la scelta del proprio sposo, anche se la scelta poi risulta fallimentare ed ella si consola tra le braccia del cugino Olivo.
  • La figlia Felice, destinata al convento, dove però vive per anni in piena mondanità, per dedicarsi poi alla cucina, all’erboristeria ed alla medicina.
  • Il figlio Signoretto, primogenito debole e malato, morto a soli 4 anni, amatissimo da Marianna.
  • Saro, il fratello di Fila, giovane di bell’aspetto che finalmente fa vivere a Marianna un vero amore, anche se irrealizzabile, tant’è vero che lei, per liberarsene, gli cerca persino una moglie e alla fine fugge lontano.
  • Il pretore di Palermo giacomo Camaleo, uomo colto, dall’intelligenza viva, galante, che tratta Marianna da sua apri, le permetti di affrontare acute discussioni intellettuali, le manifesta attenzioni e grande rispetto.

Forme del discorso: Pochi sono i discorsi diretti, visto che la protagonista è sordomuta. Si usano discorsi diretti liberi, quando Marianna assume su di sé i pensieri invadenti e scomodi delle persona che la circondano, come se li sentisse risuonare dentro di sé. Inoltre si usa il discorso indiretto libero quando sono riportati i pensieri di Marianna in modo indiretto, senza che siano introdotti da verbi dichiarativi.

Linguaggio: La prosa è realistica, ma colta: il mondo è filtrato attraverso la sensibilità di Marianna, che è una donna istruita, dall’intelligenza acuta e sottile. Il linguaggio diventa più popolare e dialettale, tipicamente siciliano, quando si esprimono gli altri personaggi, sia nobili sia popolani, accomunati tutti da una comune ignoranza. Più forbito è solo il linguaggio del colto pretore Camaleo.

Contestualizzazione:

Nata nel 1936, Dacia Maraini è figlia di una principessa siciliana di antico casto e dopo gli anni in campo di concentramento in Giappone da bambina va a vivere in Sicilia presso i nonni materni in una villa a Bagheria. Marianna è quindi una figura autobiografica, anche perché Dacia da piccola per timidezza preferiva comunicare con la scrittura piuttosto che con la voce. Inoltre la protagonista permette alla scrittrice di focalizzare la sua attenzione su due temi a lei cari: la violenza sulle donne (fu anche un’attiva femminista negli anni ’70) e l’infanzia violata.

 

Citazione adatta da abbinare ai palazzi barocchi siciliani:

…la grandezza dei nobili consiste proprio nel disprezzare i conti, quali che siano. Un nobiluomo non fa mai calcoli, non conosce nemmeno l’aritmetica. Per questo ci sono gli amministratori, i maggiordomi, i segretari, i servitori. Un nobiluomo non vende e non compra. Semmai offre ciò che vi è di meglio sul mercato a chi considera degno della sua generosità. Può trattarsi di un figlio, di un nipote, ma anche di un accattone, di un imbroglione, di un avversario al gioco, di una cantante, di una lavandaia, secondo il capriccio del momento. Poiché tutto quello che cresce e si moltiplica nella bellissima terra di Sicilia gli appartiene per nascita, per sangue, per grazia divina, che senso ha calcolare profitti e perdite? Roba da commercianti e borghesucci…